Cinema e fiction alla prova dei temi bioetici
A partire dagli anni Duemila, cinema e fiction televisiva hanno mostrato un
crescente interesse per le questioni bioetiche. Lo si deve al fatto che,
come appunto testimonia una ormai consistente produzione di film e di
puntate di serie, la bioetica è un ottimo argomento di racconto per lo
schermo. Offrono materiale drammatico le possibilità e le incognite della
genetica. Lo offrono le scelte medico-sanitarie che hanno a che fare con
opzioni di vita e di morte dei pazienti. Lo offre la libertà di questi
ultimi di fronte a possibilità di intervento cresciute esponenzialmente
insieme con gli interrogativi sulla loro liceità e sulle loro implicazioni.
E’ opportuno allora farsi due domande: quale può essere il contributo del
cinema e della serialità televisiva al discorso bioetico? In che direzione
questo contributo si è speso su ambiti cruciali come quello dell’inizio e
del fine vita?
Rispondere alla prima domanda equivale a sottolineare in egual misura una
potenzialità del racconto per lo schermo e un rischio che gli è
connaturato.
Potenzialità della narrazione audiovisiva
Prerogativa di un film o di una fiction è il portare il pubblico dentro un
problema con gli occhi, gli affetti, le relazioni, gli slanci e le
resistenze di un personaggio. Il che significa offrire di quel problema una
visione ampia e umanamente concreta: in un certo senso, una “simulazione”
di cosa vuol dire trovarsi davanti a quella difficoltà ed elaborare la
soluzione più opportuna immaginando le conseguenze che sul lungo termine di
un’esistenza ci possono essere. In ciò le emozioni hanno un peso decisivo.
Nessuna scelta, infatti, tantomeno quelle di rilevanza bioetica, avviene in
un regime di calcolo asettico, di fredda razionalità, e questo è un bene
perché le emozioni sono reazioni che rivelano alla ragione i valori, che la
indirizzano verso le cose importanti. Ora, specifica del racconto è proprio
la capacità di riprodurre questa funzione “rivelativa” delle emozioni. E’
così con il racconto letterario, ma lo è ancor di più con il racconto
audiovisivo, perché è un punto fermo della tecnica di sceneggiatura
contemporanea l’idea che a generare il coinvolgimento più forte in una
storia è il percorso di maturazione sui valori che il protagonista è
sollecitato ad intraprendere nella vicenda: scoprendo nelle emozioni della
prova i diversi valori in gioco, cercando alla fine di scegliere per i
valori più importanti, accettandone il costo. In sintesi, si può allora
dire che cinema e fiction hanno nelle loro corde la potenzialità di offrire
allo spettatore un terreno dove, insieme con il personaggio, mettere a
fuoco i dilemmi morali ed esercitarsi a cercare la via più giusta.
Il rischio
Sottolineata la potenzialità, consideriamo il rischio. Questo consiste nel
fatto che per l’autore di una storia per lo schermo il coinvolgimento del
pubblico non è mai un risultato automatico, scontato. E’ viceversa il
frutto di un faticoso lavoro di scrittura, di selezione delle cose da dire,
di sottolineature e di omissioni. Un lavoro di studiata costruzione del
personaggio per generare affezione nei suoi confronti, per giustificarne
gli sforzi di trasformazione, per sigillare quest’ultima in modo
sorprendente e profondo, così che il tema – la verità morale espressa dalla
storia – risuoni con freschezza nell’interiorità dello spettatore. Ora,
tutto questo, di per sé, non fa problema. Anzi, è inevitabile e necessario
che un racconto faccia leva su una “retorica narrativa” opportuna a creare
quella sintonia senza di cui lo spettatore non seguirebbe la vicenda con
attenzione, partecipazione, investendoci emozioni e ragionamento. Il
rischio nasce dal fatto che la retorica narrativa può essere usata per
creare i presupposti alla messa a fuoco di valori realmente prioritari, ma
anche in direzione opposta: per falsare priorità reali, per esaltare solo
alcuni lati del problema e certe sole soluzioni.
Inizio e fine della vita nel cinema
Ecco allora la seconda domanda. In che direzione cinema e televisione hanno
“costruito” personaggi e storie, approfondendo inizio e fine vita? Sul
primo versante, il cinema e la fiction migliori paiono progressivamente
allinearsi sul riscontro che la vita è un valore oggettivo e inviolabile.
E’ il caso, per esempio, del cinema di fantascienza. Da pietre miliari come Blade Runner (1982) e Gattaca (1997), per esempio, lo
sguardo si può estendere ad abbracciare l’intero genere per osservare come
vi sia assidua la critica decisa alla manipolazione scientifica sull’uomo.
Le ambientazioni futuristiche servono da lente per dire come, arrivati a
toccare l’essenza biologica dell’umano, ad operarvi modifiche genetiche, si
apre lo spazio per sperequazioni di potere che mettono in condizione alcuni
di decidere sull’idoneità al vivere di altri (questione del tutto odierna e
diffusa, se si pensa alle pratiche di fecondazione artificiale che
implicano la soppressione di embrioni, o che permettono la scelta del
figlio sano a discapito di quello malato. Aspetti considerati, per altro,
anche in film non di fantascienza, come per esempio La custode di mia sorella, 2009). Nella tecnocrazia genetica –
nell’oppressione di un sistema anonimo e autoritario – l’immaginario
fantascientifico vede il frutto di un progresso che si contraddice.
Inoltre, la fantascienza inscrive questa critica in una riflessione più
ampia e suggestiva sull’idea di limite: il limite che, superato grazie alla
tecnica, ne pone altri più subdoli e opprimenti. Come, per esempio, in Gattaca, l’inibizione dell’anelito del protagonista geneticamente
“non valido” a nutrire grandi sogni, ad usare con fede delle opportunità
che si celano nel non prevedibile e nel non controllabile. O come in Blade Runner il limite al tempo di vita che frustra, ma non
elimina, l’ansia di infinito e, in sostanza, di trascendenza, dei
replicanti.
Sempre sull’inizio vita, se ci spostiamo dalla fantascienza e dalla
genetica alla questione dell’aborto, un film come Juno (2007) e
serie come Scrubs (2001) e Dr. House (2004) offrono
spunti pro-life.
Così, come rileva la ragazza madre Juno con l’assenza di eufemismi
connaturata al suo personaggio, chi porta in grembo “ha le unghie”: è un
bambino. Il che è particolarmente indicativo se si considera che la
sceneggiatrice e le principali professionalità coinvolte nella produzione
della pellicola non si riconoscevano nelle istanze pro-life.
Eppure, approfondire la questione in ottica narrativa ha fatto sì che la
realtà, giocoforza, spingesse in questa direzione.
La stessa prospettiva pare farsi lentamente largo anche nell’ambito della
serialità americana, tradizionalmente lontano dalla difesa della vita
nascente. Per esempio, l’immagine scioccante della manina del feto che
durante un’operazione sulla madre stringe la mano del dottore è il fulcro
di una celebre puntata di Dr. House (Posizione fetale,
del 2007) ispirata ad un fatto vero e alla fotografia, scattata in
quell’occasione, che ha colpito l’opinione pubblica americana.
Se invece passiamo a considerare il versante del fine vita, cinema e
fiction offrono un panorama diverso, dove il valore della vita è
subordinato a quello dell’autonomia di scelta. Se film delicati come La famiglia Savage (2007) raccontano la malattia come risorsa di
senso, riscoperta degli affetti nella sofferenza, Million Dollar Baby (2004) – e come questo, altre pellicole
incisive che affrontano l’argomento dell’eutanasia – spingono in favore
della tesi contraria. Proprio il film di Eastwood sulla pugile tetraplegica
che vuole morire ha l’utilità di far emergere alcune soluzioni, ci pare,
costanti in questo approccio al problema. Tra queste, quelle su cui il
racconto pro choice fa leva maggiore sono probabilmente due,
strettamente connesse.
In primo luogo, la messa in ombra delle reazioni alternative possibili –
nella realtà i casi più frequenti – alla malattia: nel film di Eastwood –
così come, per esempio, allargando il quadro ad un’altra opera molto nota, Mare Dentro (Mar Adentro, 2004) – non sono rappresentate
in modo convincente persone che, tetraplegiche come i protagonisti di
queste storie, a differenza di queste vogliano però vivere, e trovano nella
propria condizione gli spunti per crescere umanamente e far crescere gli
altri loro vicini.
In secondo luogo, ricorre la rappresentazione della malattia a tinte
negative totalizzanti, con una sottolineatura esclusiva della sofferenza e
un annientamento della speranza. Come se le persone sane che raccontano la
storia proiettassero sul protagonista e sulla descrizione del suo futuro da
malato le paure con cui vivono l’eventualità in questione, senza però
conoscerla davvero, senza “viverla” né averla mai vissuta. Il giudizio su
una vita “degna di essere vissuta” o meno, appare quindi (come in Amour di Michael Haneke) più la proiezione di paure di una società
che considera “inaccettabile” qualsiasi forma di sofferenza o di limite
possibile o futuro, che non la scelta di persone concrete.
La parzialità di un simile approccio risalta ancora più chiara nel
confronto con quei film che contraddicono la tendenza ancora prevalente nel
racconto di malattia: si pensi, per esempio, a Lo Scafandro e la farfalla (Le scaphandre et le papillon, 2007) e
a Quasi amici (Intouchables, 2011). Racconti narrati
direttamente dai malati, o ispirati alla loro vera storia, in cui
l’avversità non elimina ma, anzi, rilancia l’energia e la voglia di vivere
della persona che ne è colpita. Un caso recente di serialità televisiva
nella stessa linea è la serie prima catalana poi italiana Braccialetti rossi, ispirata ai racconti autobiografici di Albert
Espinosa.
Come si vede, dunque, luci e ombre nel racconto cine-televisivo della
bioetica. Se ne evince perciò l’utilità di analisi che educhino a discutere
le storie apprezzandone, oltre al lato squisitamente estetico, anche
l’argomentazione che ciascuna di esse porta avanti, la retorica che
utilizza per farlo, la sua fedeltà alla vocazione narrativa
all’approfondimento della verità morale e dei comportamenti più giusti.