lunedì, Maggio 29 2023

«Non si preoccupi signora, per quanto possano essere esposti a contenuti
multimediali violenti, i suoi figli non rischiano di diventare dei bulli,
dei teppistelli o dei criminali. Per quante ore passino davanti alla TV o
alla console, infatti, i suoi figli sono al sicuro. È statisticamente
provato».

E allora ci sarà la madre che, di fronte alla perentorietà avverbiale
dell’ennesima statistica che diventa prova, si sentirà più tranquilla nel
lasciare i propri figli liberi di guardare qualsiasi programma alla TV, di
giocare a quell’ultimo videogioco di guerra appena comprato o, paradossi a
me inspiegabili delle nuove forme d’intrattenimento, di andare su YouTube
semplicemente per assistere a ore e ore di partite giocate da un ragazzo
come lui che, divertito, commenta le proprie prodezze al volante di una
macchina onnipotente. E allora ci sarà il padre che, di fronte
all’insistenza del figlio ormai annoiato di fare da spettatore alle partite
degli altri, non esiterà a comprarglielo quel videogioco. Tanto, «i
risultati dello studio dimostrano che il consumo di violenza mediatica non
è predittivo di un incremento dei tassi di violenza sociale».

Questa è la risposta che Christopher J. Ferguson, del Dipartimento di
Psicologia dell’Università di Stetson in Florida, dà alla domanda che
intitola il suo articolo

Does Media Violence Predict Societal Violence? [La violenza mediatica è
predittiva della violenza sociale?]

comparso quest’anno sul Journal of Communication.

Tuttavia, e ad onor del vero, un abbozzo di risposta appare già nel titolo
che, dopo il punto interrogativo, recita: « It Depends on What You Look at and When», dipende da che cosa si
guarda e da quando lo si guarda. Una risposta volutamente generica, volta a
incuriosire il lettore e a trascinarlo nella lettura del suo saggio:
l’ennesima goccia nel mare degli studi accademici che rispettivamente
incriminano o assolvono film e videogiochi violenti rispetto agli effetti
che questi hanno o avrebbero sul comportamento umano. Si tratta di un
dibattito che da anni ormai divide la comunità scientifica e, di
conseguenza l’opinione pubblica, dal momento in cui, nelle parole dello
stesso Ferguson, «non esiste un consenso tra i ricercatori in merito
all’impatto esercitato dalla violenza mediatica». L’estrema eterogeneità
dei risultati degli studi, molti dei quali passati in rassegna dallo stesso
autore, se da un lato viene ricondotta a quella dei metodi di ricerca
adottati, dall’altro sembra volta ad avallare il suo posizionamento
relativizzante: dipende da che cosa si guarda e da quando. E su questo
siamo perfettamente d’accordo con il Dott. Ferguson. E allora, è con
estremo interesse che ci lasciamo guidare alla scoperta dei suoi «che cosa»
e dei suoi «quando», fiduciosi di imbatterci in uno studio sperimentale di
caso – circoscritto, ovvero, nel tempo, nello spazio e rispetto all’oggetto
studiato – e, proprio per questo, senza alcuna pretesa di universalità.

Si tratta di una ricerca composta da due studi incentrati sulla relazione
tra la violenza sociale e, rispettivamente, quella presente nei film e nei
videogiochi.

Partiamo dal primo.

Dopo le prime tre righe del paragrafo relativo alla metodologia di ricerca
dobbiamo già fare i conti con la prima sorpresa: il «quando». Il periodo di
riferimento dello studio comprende un arco temporale di 85 anni (1920 –
2005) all’interno del quale, con un intervallo di 5 anni, sono stati
selezionati i 90 film più visti dal pubblico statunitense. Ciascuno di essi
è stato poi classificato secondo il livello di violenza medio con
intervalli di classificazione di un minuto rispetto alla durata totale del
film. A questo punto non abbiamo più alcun dubbio circa il taglio
sostanzialmente statistico della ricerca, sul tipo di risultati e sul modo
in cui verranno presentati. Senza dilungarci nei dettagli relativi alla
classificazione delle pellicole prese in esame, ci limitiamo a segnalare
che il tasso di variabilità dei contenuti violenti sono stati poi disegnati
con una curva su un asse cartesiano che permette di osservarne graficamente
l’andamento all’interno dell’arco temporale considerato. Nello stesso
grafico è stata poi disegnata un’altra curva relativa alla violenza sociale
calcolata secondo la variabilità dei seguenti parametri: il tasso di
omicidi ottenuto dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (quindi si
tratta solo degli omicidi effettivamente denunciati), il reddito medio per
famiglia, il numero delle unità di polizia impiegate nel corso degli 85
anni, la densità della popolazione, la proporzione della popolazione
giovane al di sotto dei 24 anni e il prodotto interno lordo del Paese.

Come era da attendersi, nell’analisi dei risultati – basati sull’andamento
più o meno divergente tra le due curve – Ferguson registra che «gli
elementi visuali violenti nei film hanno seguito un trend caratterizzato da
una costante liberalizzazione, in particolare nella seconda metà del XX
secolo. È interessante notare, tuttavia, che questo andamento non è
correlato con i tassi di violenza sociale. [Ciononostante] la frequenza di
contenuti cinematografici violenti risulta avere una certa corrispondenza
con la violenza sociale per quanto concerne gli omicidi». E in base a
questo conclude affermando che «il tentativo di stabilire una connessione
causale tra la violenza cinematografica e quella sociale per quanto
riguarda i decenni presi in esame risulta una falsità ecologica».

Non senza una certa delusione e quell’amarezza tipica delle aspettative
frustrate ci imbattiamo nella lettura delle secondo caso di studio: i
videogiochi. Un tema che riguarda sicuramente più da vicino la vita dei
nostri figli. Tuttavia, anche qui la scelta del metodo è più o meno la
stessa, nonché, a nostro avviso, la criticità di alcuni aspetti. Tra
questi, il computo del consumo medio di videogiochi violenti nell’arco dei
15 anni presi in considerazione (1996 – 2011) è calcolato in base ai dati
provenienti dalla Entertainment Software Administration e misurato
in termini di unità vendute, trascurando cioè i videogiochi destinati ai
dispositivi mobili, alle reti sociali, quelli non commerciali diffusi
online e, soprattutto, senza tener conto della portata del mercato nero
delle copie pirata. Per quanto riguarda la violenza sociale, invece, anche
in questo caso i dati sono ottenuti da un sito governativo ( www.childstats.org), e sono
pertanto relativi esclusivamente a episodi di omicidio, stupro e furto
effettivamente denunciati alle autorità. Il responso del grafico è
insindacabile: mentre il consumo di videogiochi violenti è aumentato
esponenzialmente nel corso di 15 anni, gli episodi di violenza tra i
giovani di età compresa tra i 12 e i 17 anni hanno subìto un andamento
decrescente e, pertanto, «il consumo di videogiochi violenti nella società
è inversamente relazionato alla violenza giovanile».

Secondo il Dott. Ferguson i risultati di tali studi dovrebbero spingerci a
considerare che l’influenza esercitata da uno specifico contenuto mediatico
dipende molto di più da ciò che il singolo consumatore sta ricercando
tramite quell’esperienza – quindi da quella che è la sua motivazione –
piuttosto che dal contenuto in sé. La motivazione determina ciò che sceglie
di guardare, mentre i contenuti, per quanto eticamente discutibili, possono
esercitare influenze ben diverse da un individuo all’altro. Se su questo in
linea di massima possiamo essere d’accordo con Ferguson, (più avanti
spiegheremo il perché), dissentiamo del tutto quando, rifacendosi in modo
del tutto singolare alla Teoria delle attività routinarie formulata in
ambito criminologico negli anni ’80 da Felson e Cohen, afferma che
«qualunque sia l’impatto esercitato dalla violenza mediatica sull’umore o
sulla motivazione, il semplice coinvolgimento che il soggetto prova
nell’atto di guardare film o di giocare a videogiochi violenti l

o tiene occupato, togliendogli così le opportunità di arrecare danno al
prossimo e riducendo, pertanto, gli episodi di violenza criminale

» (corsivi nostri).

Se è ragionevole evitare di stabilire un nesso causale unico e diretto tra
il consumo di film e videogiochi violenti e gli episodi di violenza
sociale, così come è condivisibile considerare il soggetto come un agente
attivo e non come un contenitore acefalo di stimoli multimediali, allo
stesso modo ci pare sin troppo semplicistico credere che una delle cause
della riduzione della criminalità possa essere che le persone sono
impegnate a cercare, scovare e uccidere virtualmente le loro vittime.

Al netto delle criticità metodologiche della ricerca e della frustrazione
nel leggere uno psicologo che più che di clinica, studi di caso e metodi
sperimentali qualitativi ci parla di statistica, quali spunti di
riflessione possiamo trarre dalla lettura di questo articolo? Che risposte
possiamo dare a quei genitori che hanno difficoltà nel gestire le richieste
dei loro figli, in particolare rispetto all’uso dei videogiochi violenti?
Come possiamo intercettare le ragionevoli preoccupazioni di quelli a cui
non basta la perentorietà di un «è statisticamente provato»? Come possiamo
tradurre una serie di riflessioni teoriche in suggerimenti educativi?

Lungi dal voler condannare aprioristicamente gli studi statistici e i loro
risultati, che contribuiscono talvolta a comprendere la portata dei
problemi sociali, è altresì vero che essi non bastano per trarre giudizi di
ordine etico. Innanzitutto poiché, come avverte la stessa scienza
statistica, le correlazioni tra fenomeni non comportano l’esistenza di una
causalità. È ovvio che il lettore non avvezzo legge causa al posto
di correlazione, così come è certo che a volte e i divulgatori dei
risultati tendono a porre l’accento non sui cavilli metodologici, che
renderebbero la lettura farraginosa, ma sulle possibili indicazioni che derivano dai risultati. Insomma, non va
dimenticato che le statistiche, per quanto neutre possano apparire o
pretendono essere, al pari di qualsiasi altro dispositivo usato per
fotografare una determinata realtà, costituiscono parimenti un’arma
retorica – quando non ideologica – di costruzione sociale della realtà
stessa. Alla luce di quanto detto e a mo’ di conclusione, va detto che
consideriamo riduttivo studiare quantitativamente la «violenza di un
discorso», senza entrare nel merito del discorso, il che richiede
sempre l’applicazione di un metodo di uno studio qualitativo, dal momento
in cui il modo di rappresentare la violenza all’interno di un
discorso può incluso arrivare a neutralizzarne l’impatto, e viceversa.

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