sabato, Giugno 10 2023

Risulta confortante trovare ogni tanto nel panorama televisivo attuale,
saturo di programmi inconsistenti, una serie come Lost, a cui
va riconosciuto il merito di aver portato sullo schermo questioni di un
certo interesse, come il destino e l’identità dell’uomo, la sua
responsabilità davanti al libero arbitrio, il senso di colpevolezza, la
possibilità di redenzione, con una dimensione religiosa abbastanza
esplicita seppure politicamente corretta.

Dal 2004 fino al 2010, questa produzione della Walt Disney trasmessa
inizialmente dalla ABC, ha tenuto con il fiato sospeso milioni di
spettatori di più di 200 paesi, e ha originato innumerabili dibattiti e
articoli e perfino più di una dozzina di libri monografici, firmati non
solo da simpatizzanti o critici televisivi, ma anche da sociologi o
filosofi.

Alcuni di questi studi hanno mostrato la loro delusione davanti
all’elevato numero di questioni che gli sceneggiatori hanno lasciato
senza risposta. E sicuramente non per mancanza di tempo, dal momento
che la serie prodotta è stata molto più lunga rispetto al progetto
originale, ma volutamente, come gli stessi autori hanno spiegato in
diverse interviste. Altri studi hanno apprezzato la genialità di alcune
scelte creative, che hanno cercato connessioni e riferimenti alle
tematiche mitiche, religiose o antropologiche più varie.

Fino ad ora gli stessi titoli dei libri editi aiutano a stimare il tipo
ed il tono delle reazioni a questo fenomeno mediatico:

The myth of Lost, Lost and Philosophy, The search of meaning, The
Gospel according to Lost, Lost ed i suoi segreti, La filosofia di
Lost, Pensare Lost: l’enigma della vita ed i segreti dell’isola

, per citare solo alcuni. Non menziono gli articoli in riviste del
settore o di cultura, che sono ancora più numerosi.

Ritengo sia opportuno aggiungere una riflessione a questo fenomeno
globale per vari motivi. Da un lato, perché la serie continua ancora ad
essere vista: sia attraverso internet, sia in DVD o tramite i nuovi
canali di televisione digitale, che in tutto il mondo continuano a
ritrasmettere secondi o terzi passaggi dei distinti episodi della
serie, con ascolti discreti. Dall’altro, perché molte delle questioni
esposte toccano da vicino temi in relazione con la famiglia. Infine,
perché si tratta di una delle poche serie di qualità, rivolta
contemporaneamente a giovani e ad adulti (non raccomandabile invece ad
un pubblico infantile).

Si è elogiato frequentemente l’attrattiva che presenta questa serie
grazie alla sua originalità stilistica e narrativa: ad esempio il
ricorso abituale, ma ben dosato, dei flashbacks sulla vita passata dei
naufragi, con gli errori che hanno commesso nella loro vita, oppure il
miscuglio di generi che ne fanno un thriller-mystery con elementi
drammatici e romantici, insieme ad inserti di commedia ed avventura.
Oltre a queste qualità stilistiche, non deve passare inosservato il
fatto che, a differenza della maggioranza delle serie di successo
internazionale, in questa non abbondano i contenuti sensuali, ad
eccezione di alcune scene isolate, a partire dalla terza stagione. Ed
inoltre, in generale, l’amoralità, le infedeltà coniugali, la bugia,
l’egoismo, etc., sono presentati come mali, come qualcosa di dannoso
per la persona e per la società.

Il merito, logicamente, bisogna cercarlo negli autori, soprattutto nei
creatori e nei principali sceneggiatori: Jeffrey Jacob Abrams, Damon
Lindelof e Carlton Cuse. Non risulta facile mantenere un livello alto
di qualità e coerenza narrativa quando c’è un obbligo contrattuale di
scrivere 120 episodi di quasi un’ora ognuno. Inoltre, mi sembra
interessante segnalare che gli stessi autori hanno riconosciuto senza
nessuna vergogna le influenze che le loro esperienze personali hanno
avuto sul loro lavoro creativo: le loro radici religiose,
giudeo-cristiane, i propri conflitti familiari, etc. Testimonianze
possono essere trovate nelle interviste raccolte da Carlo Dellonte e
Giorgio Glaviano in Lost ed i suoi segreti, Dino Audino
Editore, Roma, 2007.

E’ inoltre interessante notare che una delle interpretazioni
ricorrenti, offerte dai fans della serie, è che l’isola, dove i
naufragi hanno passato questi ultimi sei anni, è una metafora del
purgatorio: lì le colpe passate riappaiono o si mettono in evidenza,
insieme ad altri pericoli non meno angoscianti. O, ugualmente, l’isola
potrebbe essere una metafora dello stesso Dio, o di una divinità
compatibile con le religioni monoteistiche che aiuta i protagonisti ad
approfittare del loro isolamento per affrontare i propri errori ed i
propri complessi, per abbandonare la loro eccessiva razionalità o il
loro individualismo radicale.

Gli autori non hanno voluto pronunciarsi circa questi e molte altre
elucubrazioni. Hanno dichiarato che preferivano che ogni spettatore
riflettesse per conto proprio e che ognuno tirasse fuori le sue
conclusioni in merito. Ma è indiscutibile che la serie ha toccato con
una certa profondità tali questioni, e l’ha fatto in un modo gradevole
ed efficace: mediante la messa in scena di storie umane forti,
verosimili, con personaggi molto vari e di carattere ben definito.
Questo ultimo aspetto, secondo gli autori, è fondamentale per il
successo di una serie di lunga durata, perché in questo modo si lega
più facilmente lo spettatore, che tende ad identificarsi con uno dei
personaggi, a solidarizzare coi suoi difetti, ad ammirare i suoi sforzi
per superarli, a trasformarlo in una specie di eroe moderno.

Con la peculiarità che le azioni che si rappresentano – soprattutto nei
flashbacks che raccontano la vita precedente dei naufragi –
appartengono, sfortunatamente, ad una realtà molto presente nella
società attuale: discussioni gravi in famiglia, mancanze di onestà nel
lavoro, abitudini di insincerità, avidità, violenza ed egoismo,
complessi di inferiorità, perturbazioni della personalità o simili.

Ma, vicino a questi difetti, non mancano atti virtuosi, che si
osservano durante le mille peripezie che affrontano i naufragi
nell’isola, e che offrono allo spettatore alcuni piste che permettono
di stabilire connessioni di causa-effetto rispetto agli avvenimenti
dell’isola: gesti di generosità per condividere risorse scarse, lavoro
di squadra, fiducia negli altri, atti di riconciliazione, consigli o
parole di coraggio, manifestazioni spontanee di sincerità, e perfino il
mettere in gioco la propria vita per salvare i compagni.

In questo senso penso che è stato giustamente sottolineato che la serie
segue strutture narrative classiche di carattere mitologico, e che ha
perfino una chiara dimensione filosofica, perché la questione di fondo
si incentra nella ricerca del senso della vita, della visione del
mondo; compito che risulta più facile quando si guarda dall’assoluto
isolamento geografico, o, ancora peggio, da un’isola popolata da
pericoli di carattere apparentemente sovraumano come la interpreta
Simone Regazzoni nel libro La filosofia di Lost, Adriano
Salani Editore, Milano 2009.

L’ambiguità che gli sceneggiatori volutamente lasciano nelle vicende,
senza risolvere alcuni questioni importanti (tipo che cosa facciamo
qui, perché soffro queste punizioni, etc.), assicura Regazzoni,
rappresenta il migliore riflesso della società attuale. Ogni
personaggio principale vede la sua situazione, la sua vita passata e
futura, con una prospettiva distinta, e quella pluralità di prospettive
spinge lo spettatore a cercare le sue risposte alle questioni ultime,
tutte legittime.

A mio avviso, l’analisi di Regazzoni è interessante, ma le sue
conclusioni sono eccessivamente relativistiche. In realtà, cerca di
leggere tutta la serie attraverso linee esistenzialiste e nichiliste
sulla scia di Jacques Derrida ed altri autori deconstruttivisti. Così,
sembra dire Regazzoni, la serie dimostra che non esiste nessuna verità
sul mondo, sull’uomo, sulla sofferenza. Ognuno ha una sua propria
opinione, come i protagonisti della serie. Opinione che deve essere
rispettata, perché risponde ad un vissuto concreto.

Nonostante la forzata interpretazione, considero riuscito, almeno, il
tentativo di analizzare con profondità la serie attraverso una lettura
antropologica. E’ vero che esiste sempre il rischio di esagerare, di
inventare significati a cui in realtà gli autori non hanno mai pensato,
di volere semplificare a volte in poche pagine temi che si sono
sviluppati per molte ore, per “esigenze” del copione, o di essere
criticato per eccesso di ottimismo nella ricerca di valori positivi;
nonostante credo che questo sia un buon esempio per dimostrare che vale
la pena studiare i contenuti di alcuni programmi televisivi, perché
sono manifestazione chiara del modo di essere e di pensare attuale,
almeno di un modo di pensare di una minoranza creativa, quella dei
professionisti di Hollywood che influisce molto nella realtà sociale.

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