venerdì, Settembre 29 2023

Film diretto da John Curran, tratto da un romanzo di W. Somerset Maugham


Lift not the painted veil which those who live Call Life (Percy Bysshe
Shelley)

La prima scena del film “Il velo dipinto” è un’immersione nella vendetta.
Il dr. Walter Fane, batteriologo inglese a Shangai, sta trascinando la
moglie Kitty in un inferno di caldo, umidità e miseria, per vendicarsi del
suo tradimento.

I protagonisti stanno viaggiando verso il villaggio infestato dal colera e
ai confini del mondo, Mei-tan-fu, che Walter ha scelto come destinazione
per punire la moglie adultera. Non solo la costringe a seguirlo in una
situazione di pericolo estremo, ma fa in modo di rendere quel viaggio più
faticoso e doloroso per Kitty (ma anche per sé) di quel che sia necessario,
tra caldo insopportabile e umidità. È un clima afoso e asfissiante, che
contrasta con la freddezza e il controllo delle emozioni mostrato da
Walter.

Timido, imbranato, decisamente poco allettante nella sua proposta di
matrimonio a Kitty due anni prima, grato alla vita per essere riuscito a
impalmare la ragazza carina e vivace dell’alta società, si trasforma in un
uomo capace di rivolgere alla moglie dosi inimmaginabili di crudeltà. Una
vena pulsante sulla tempia di uno straordinario Edward Norton (Walter Fane)
tradiscono l’intensità dell’odio e del desiderio di vendetta. Quando
infatti scopre di essere stato tradito le offre la scelta tra due
alternative terribili; particolarmente inaccettabile, per una donna
britannica degli anni venti del secolo scorso, è la prima delle due: il
divorzio per colpa, in cui sarà esposta al pubblico ludibrio; in
alternativa la partenza insieme al marito da Shangai verso una destinazione
remota e pericolosa, in mezzo a un’epidemia di colera. Kitty, snob e
superficiale (molto ben rappresentata da Naomi Watts) non ama Walter, non
l’ha mai amato, non è mai stata innamorata di lui, non l’ha neanche mai
considerato un “buon partito”. Non ha alcuna intenzione di andare incontro
a un vero e proprio suicidio sociale accettando di divorziare, ma le è
odiosa anche l’idea di continuare il matrimonio e di seguirlo ai confini
del mondo, rischiando di contagiarsi il colera e morire. Corre allora
dall’amante, illudendosi di trovare la vera felicità dove forse non è mai
stata neanche per lei, dove forse si trova solo un “velo dipinto”, per
scontrarsi con la realtà del rifiuto. Respinta, non ha scelta, seguirà il
marito, obtorto collo, ovunque abbia deciso di andare. E la
vendetta di Walter si consuma nei prolungati silenzi, nel disprezzo nei
confronti di Kitty, ormai immersa in un mare di solitudine e disperazione.

Com’è possibile che da un’unione come questa possa emergere l’Amore? È un
matrimonio fondato su un’iniziale infatuazione di Walter e sul desiderio di
Kitty di emanciparsi da una madre petulante e impaziente di disfarsi della
figlia, in una società che non garantiva alle donne molte altre chance di
dignità sociale. Si doveva prima o poi passare dalla protezione paterna a
quella di un marito. Ed era meglio fosse “prima” che “poi”, mentre la
nostra Kitty si stava rapidamente avvicinando all’età pericolosa che
trasforma una bella ragazza dell’alta società in una zitella destinata ad
avvizzirsi a casa con mamma e papà. Insomma, non proprio delle basi solide
su cui fondare un’unione duratura. Seguono il tradimento, il disprezzo,
l’odio, la vendetta.

È evidente la sofferenza del marito, il dolore provocato dall’offesa del
tradimento. Altrimenti come si spiegherebbe la crudeltà con la quale Walter
fa palesemente finta di rassicurare la moglie (in realtà vuole
terrorizzarla) al loro arrivo nel villaggio decimato dall’epidemia sul
fatto che no, non deve preoccuparsi, tutto sommato morire di colera è una
faccenda piuttosto rapida, è sì molto doloroso, ma nel giro di poche ore si
arriva alla fine, per poi chiudere velocemente la porta della propria
stanza e lasciare al di là la moglie sola e in preda alla disperazione? E
il silenzio, la freddezza, il distacco che il marito riserva
sistematicamente alla moglie costituiscono quella vendetta pensata e agita
da Walter contro Kitty, ma che finisce per ricadere con forza anche su di
lui, rendendolo ancora più cinico e infelice. È tutto così profondamente
umano, così comprensibile: colui che è stato tradito si vendica con il
distacco, il disprezzo, ma anche con tante piccole meschinità quotidiane.
Viene in mente il motto di Terenzio, humani nihil a me alienum puto. Walter ha subito un’offesa grave,
odia e si vendica. Ma la vendetta, perpetrata nell’illusione che potrà dare
sollievo, è come un boomerang, si rivela alla fine fonte di sofferenza
anche per chi la agisce. Che speranza c’è di sanare ferite così devastanti?

Eppure accade qualcosa di straordinario. Kitty, stanca di essere così
stabilmente infelice, determinata a non finire la propria vita consumata
dal livore e dal risentimento, prova a tendere la mano a quell’uomo così
ostile e determinato a odiarla ( Perhaps I just want us to be a little less unhappy). Inizia a
osservare il marito assumendo una prospettiva diversa. Un po’ alla volta
egli non è più, ai suoi occhi, solo il corteggiatore imbranato dei primi
tempi, o il batteriologo un po’ nerd immerso tra le provette, o l’uomo
sadico che l’ha costretta a un viaggio inutilmente tortuoso e disagevole,
ma inizia a emergere con le sue doti di compassione mentre la moglie lo
osserva prendersi cura dei tanti pazienti disperati che a lui si affidano.

È un percorso tortuoso, di espiazione e di redenzione. Il confronto con la
miseria, lo squallore, la malattia in quell’angolo di Cina avevano
inizialmente fatto chiudere Kitty in un isolamento totale dalla comunità
locale, facendole rimpiangere la vita londinese e le sue frivolezze. Ma nel
tentativo di uscire da un’infelicità opprimente sente la spinta a uscire da
se stessa e dal proprio egoismo. Forse vuole arrivare a sera sentendosi
finalmente soddisfatta per aver dato senso alle proprie giornate, che per
tanto tempo erano trascorse come un pendolo tra dolore e noia. Lentamente
la vita di questa donna un po’ fatua e abituata al lusso diventa
un’esistenza spesa anche per gli altri. Eppure non è la storia trita,
banale, buonista e soprattutto inverosimile, di una trasformazione del
personaggio da “cattivo” a “buono”. Per altro neanche alla figura del
marito viene applicato questo cliché. È sempre Kitty ad agire, graziosa ed
elegante, e che anzi metterà a frutto un aspetto di sé coltivato nella sua
vita precedente di ragazza agiata, l’amore per la musica (magnifica colonna
sonora di Alexandre Desplat). E Walter comincerà a osservare la moglie con
occhi diversi, e attraverso questo sguardo nuovo sull’altro sarà possibile
iniziare ad amarsi davvero. La prospettiva empatica gli consentirà di
vedere Kitty non più solo come la ragazza salottiera e viziata della quale
si era invaghito, colpito dalla sua bellezza, ma come una donna con un
cuore capace di amare.

Cosa renderà possibile innamorarsi a queste due persone, a partire da
quell’iniziale coacervo di odio e disprezzo? L’unica dimensione di
relazione con l’altro che consente di riparare in profondità le relazioni,
di rinnovarle, e di liberare dalle pastoie del passato, il perdono. È il
perdono che salva Walter e Kitty dalla dolorosa coazione a ripetere, dal
ruminare sui torti subìti, dal chiudersi in un gelido isolamento, dal
vendicarsi illudendosi di ristabilire così la giustizia. È il perdono che,
reciprocamente offerto e ricevuto nelle relazioni umane, apre alla libertà
e consente di ricominciare a vivere.

(*) La prof.ssa Barbara Barcaccia insegna Tecniche del Colloquio
Psicologico presso l’Università degli studi dell’Aquila, è docente della
scuola di specializzazione in Neuropsicologia, Sapienza Università di Roma
e didatta della scuola di specializzazione quadriennale post-lauream
APC-SPC. È curatrice, insieme a Francesco Mancini, del volume “Teoria e
clinica del perdono” (Raffaello Cortina Editore), finalista del Primo
Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica dell’AIL e patrocinato dal
CNR.

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