sabato, Giugno 10 2023

Lo sviluppo dei nuovi media digitali (specialmente Internet e telefoni
mobili), esige una nuova mediazione educativa da parte dei genitori,
differente da quella utilizzata con la televisione.

Lo sostiene Lynn Schofield, professoressa associata all’Università di
Denver, nel suo studio sulla Parental Mediation (“Parental
Mediation Theory”, in Communication Theory, vol.21, 2011, pp.
323-34).

I genitori, oltre a orientare le relazioni che i figli stabiliscono con
i nuovi media, condividono ed imparano nuove conoscenze, dato che anche
per loro ci si muove su un terreno in permanente cambiamento che
colpisce profondamente la famiglia, non solo per quanto riguarda
l’impatto dei contenuti ma anche per le relazioni familiari.

Secondo l’autrice, agli inizi, prima dell’era digitale, gli studiosi
erano interessati ad analizzare le modalità sviluppate dai genitori per
tentare di mitigare gli effetti dei media sui propri figli. In questo
contesto, oltre a suggerire di limitare il tempo di permanenza davanti
alla televisione e studiare con attenzione il modo in cui i programmi
modellavano i desideri dei bambini verso i prodotti commerciali, gli
specialisti notarono l’importanza del ruolo dei genitori come agenti
nella socializzazione dei figli nell’uso dei media. Gli esperti
incominciarono ad utilizzare il termine “parental mediation
per esprimere quel ruolo essenziale che i genitori avevano nella
gestione e nella regolazione delle esperienze dei propri figli con la
televisione.

Ma Schofield sostiene che la teoria della Parental Mediation
ha alcuni limiti. Questa teoria è, a suo giudizio, un ibrido di una
teoria della comunicazione che, benché radicata primariamente sugli
effetti sociologici e psicologici dei media, incorporava come punti di
appoggio l’importanza della comunicazione interpersonale tra genitori e
figli. Il primo limite di questa teoria è il suo forte legame ad una
tradizione di ricerca sugli effetti dei media dove gli studiosi tendono
a concentrarsi sugli effetti negativi che i media stessi hanno nello
sviluppo del processo cognitivo dei figli, dimenticando altre modalità
usate dai genitori per obiettivi educativi e famigliari positivi, non
direttamente relazionati coi media. Inoltre, sostiene l’autrice, viene
prestata poca attenzione alle pressioni sociali che subiscono i
genitori sul modo in cui devono esercitare il proprio ruolo di
mediazione, un aspetto che è molto importante. Il secondo limite di
questa teoria è che prestava poca attenzione al periodo
dell’adolescenza, dove le relazioni tra genitori e figli cambiano
notevolmente. Un terzo limite è che i ricercatori si sono orientati
fondamentalmente verso la televisione perché era il mezzo che aveva
acquisito maggiore forza sociale, ma i cambiamenti attuali richiedono
di ampliare l’oggetto di studio. È necessario approfondire come questa
teoria potrebbe applicarsi in relazione ai nuovi media digitali,
computer, telefoni mobili o altri strumenti in grado di offrire
programmi, giochi, informazione, intrattenimento…

Gli studi precedenti sulla mediazione educativa dei genitori
consideravano tre modi di esercitarla:

a) Mediazione attiva (active mediation): implica le frequenti
conversazioni e scambio di impressioni che i genitori realizzano con i
propri figli sul contenuto di quello che vedono in televisione. È il
più efficace perché sviluppa la capacità di giudizio autonomo e senso
critico e diminuisce l’impatto dei contenuti negativi di alcuni
programmi, oltre ad accrescere l’interesse verso l’uso dei media sui
temi pubblici. Questa mediazione ha effetti positivi che vanno oltre
l’impiego dei media perché sono vincolati ad obiettivi essenziali della
famiglia in sé: riducono i conflitti familiari, generano maggiore
stabilità e favoriscono la socializzazione e le relazioni
interfamiliari.

b) Mediazione restrittiva (restrictive mediation): suppone
l’imposizione di alcune norme e regole nell’utilizzo della televisione
da parte dei bambini. Gli studi mostrano che esiste il rischio di
generare una certa tensione nella relazione con i genitori o la
stimolazione di un desiderio per conoscere quello che viene proibito.
Le regole non sembrano essere un elemento educativo in sé perché quello
che è importante è che i minorenni incorporino internamente dei
criteri, per agire in futuro in modo conforme ad essi.

c) Mediazione di presenza (co-viewing): è uno dei più
frequenti, vicino alla prima, e consiste nel condividere l’uso dei
media senza intervenire.

Sebbene queste siano le tre forme di mediazione più frequente segnalate
da alcuni autori, è necessario evidenziare che molti genitori ed
educatori rinunciano al proprio ruolo di mediazione o non l’esercitano.
Tra i possibili motivi, alcuni studi suggeriscono che i genitori
tendono a sopravvalutare l’influenza che i media hanno in altri bambini
e a sottovalutare invece l’influenza che esercitano sui propri figli. È
frequente che un padre veda suo figlio più maturo rispetto ai suoi
coetanei e con maggiore capacità di sviluppare progressivamente un
criterio di giudizio autonomo sui contenuti dei media.

Inoltre, i figli sempre più spesso passano il tempo con i media
elettronici e meno con i genitori, pertanto risulta importante
determinare i contesti dove si produce la mediazione.

Per trovare i modi attraverso cui correggere questi limiti, la
professoressa Schofield, riprende alcuni studi etnografici sul contesto
familiare nel quale si produce la relazione con i media (con le
conseguenti implicazioni nell’organizzazione del nucleo familiare e
nelle relazioni tra i membri: orari di coincidenza, temi, criteri..).
Analizza anche recenti studi nel campo della sociologia delle emozioni
e delle relazioni tra adulti e bambini, e nel campo dell’apprendistato
situazionale. Questi studi si propongono di dedicare una maggiore
attenzione alle necessità che i bambini hanno verso i propri interessi,
vedendo la mediazione da questa prospettiva.

Come conclusione, l’autrice propone di aggiungere un quarto modello, il
participatory learning” o “apprendistato participativo” che
tiene conto dei recenti avanzamenti della sociologia. L’apprendistato
participativo, difende l’autrice, sarebbe una quarta strategia che
potrebbero usare i genitori per educare i figli tenendo conto dei nuovi
media. In questo modo si eviterebbero modalità di mediazione che
sarebbero efficaci solo con i media tradizionali, come la televisione,
ma non con gli attuali. Questo implica un cambiamento nel modo di
educare. Comporta lo sviluppo di un atteggiamento nuovo nel quale anche
i genitori si formano; un atteggiamento che implica la conoscenza dei
media e dei propri figli, facendone un uso comune. I figli possono
trovare pericoli nelle nuove tecnologie ma possono sviluppare anche
nuove capacità, fortificare relazioni personali, generare creatività
individuale ed in gruppo, e perfino acquisire conoscenze.

L’articolo è interessante per chi desidera trovare argomenti
scientifici sul modo di educare i figli all’uso dei media. Il limite è
che non si offrono orientamenti pratici, solo teorici. Inoltre, non si
segnala esplicitamente che la possibile rinuncia dei genitori ad avere
un ruolo attivo nell’educazione potrebbe avere anche un altro motivo: i
cambiamenti prodotti nei media sono tanto grandi e costanti che si
sentono poco preparati per offrire un’orientamento ai propri figli.
Come risolvere questo problema?

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