lunedì, Dicembre 2 2024

Lunedì 17 novembre del 2014 il Rabbino Sacks ha preso parte al Colloquio Internazionale su “La complementarietà dell’uomo e della donna” riunito in Vaticano sotto gli auspici di Papa Francesco (ulteriori dettagli su http://humanum.it).

Riproduciamo la versione integrale del suo intervento tradotta in italiano.

“Questa mattina voglio iniziare il mio intervento raccontando la storia di una delle più strabilianti idee nella storia della nostra civilizzazione: l’idea per cui l’amore porta una nuova vita nel mondo. Ovviamente, esistono molti modi di raccontarla e questo è solamente uno di essi; dal mio punto di vista si tratta di una storia che può essere suddivisa in sette momenti chiave, ciascuno dei quali tanto sorprendente quanto inatteso.

Il primo di questi momenti, d’accordo con un reportage giornalistico comparso sulla stampa lo scorso 20 ottobre, ha avuto luogo in Scozia circa 385 milioni di anni fa. Fu allora quando, secondo questa nuova scoperta scientifica, due pesci si unirono per compiere il primo esempio di riproduzione sessuale conosciuto.

Fino ad allora, infatti, tutta la vita si era propagata in modo del tutto asessuato, tramite divisione cellulare, germogliazione, frammentazione o partenogenesi. Ognuna di queste modalità è da considerarsi in assoluto più elementare ed economica rispetto alla riproduzione della vita tra maschio e femmina, laddove ognuno ricopre un ruolo specifico nella creazione e nel sostentamento della vita.

Anche all’interno del regno animale, se si considerano la quantità di sforzo e di energia necessari all’unione tra il maschio e la femmina, in termini di esposizione, rituali di corteggiamento, rivalità e violenza, è davvero incredibile come la riproduzione sessuale sia comparsa nella storia nonostante tutto, e i biologi ancora non sono riusciti a spiegarne il motivo. Alcuni sostengono che sia da ricondurre ad una strategia di protezione contro i parassiti, o a una strategia che aumenta l’immunità contro le malattie. Altri ritengono semplicemente che l’incontro tra opposti sia funzionale alla creazione della diversità. Ad ogni modo, quei due pesci in Scozia scoprirono qualcosa di assolutamente nuovo e meraviglioso che da allora è stato poi replicato praticamente da tutte le altre forme di vita più evolute. La vita ha inizio quando un maschio e una femmina si incontrano e si abbracciano.

Il secondo e inaspettato sviluppo nella nostra storia è stata l’unica grande sfida che si è imposta all’Homo Sapiens su ben due versanti: se da un lato abbiamo guadagnato la postura eretta che, oltre ad occultare i genitali femminili, li ha anche notevolmente compressi, dall’altro abbiamo raggiunto una maggiore capacità cranica – con una crescita del 300% – che ha comportato lo sviluppo di teste più grandi. Il risultato è stato che i cuccioli di uomo dovevano nascere più prematuramente rispetto a quelli di altre specie, tanto da necessitare, dopo la nascita, una prolungata protezione da parte della madre. Ciò ha reso il ruolo genitoriale più difficoltoso e impegnativo per gli umani rispetto alle altre specie, richiedendo l’impegno di due persone piuttosto che di una.

Pertanto, si tratta di un fenomeno piuttosto insolito tra i mammiferi che instaurano un legame di coppia, dato che tra le altre specie il contributo del maschio tende a limitarsi all’atto della fecondazione. Tra la maggior parte dei primati, ad esempio, il padre non riconosce mai i propri figli, né tanto meno si prende cura di loro. Tra le altre specie del regno animale, mentre la maternità tende ad essere universale, la paternità rappresenta un fenomeno piuttosto raro. È dunque con la comparsa dell’essere umano che affiora il fenomeno per cui madre e padre biologici si prendono cura congiuntamente dei lori figli. Fino a quel momento si può parlare quindi esclusivamente di natura, ma da allora in poi ecco che compare la cultura, ovvero la terza grande sorpresa della nostra storia.

Sembrerebbe che tra le società primitive di cacciatori-raccoglitori l’unione della coppia costituisse la norma. Con l’avvento dell’agricoltura, il surplus economico, la comparsa delle città e della civilizzazione, per la prima volta iniziarono ad emergere le prime chiare diseguaglianze tra ricchi e poveri, tra potenti e impotenti. Gli enormi Ziqqurat della Mesopotamia e le piramidi dell’antico Egitto, con le loro ampia base e il vertice ristretto, erano monumentali manifestazioni in pietra di società fortemente gerarchizzate in cui il potere era concentrato nelle mani di pochi che lo esercitavano sul resto della popolazione. E la più ovvia espressione di potere tra i maschi dominanti, sia tra gli umani che tra i primati, consisteva proprio nella gestione dell’accesso alle donne fertili, al fine di massimizzare la trasmissione dei loro geni alle successive generazioni. Ecco così spiegato il fenomeno della poligamia, la cui esistenza si registra tra il 95% dei mammiferi e tra il 75% delle culture conosciute dagli antropologi. La poligamia è in questo senso la massima espressione della diseguaglianza, poiché preclude ai maschi la possibilità di avere una moglie e dei figli. Nell’arco della storia, e tanto tra gli umani quanto tra i resto degli animali, l’invidia sessuale ha da sempre costituito un impulso originario di violenza.

Questo è precisamente ciò che rende il primo capitolo della Genesi così rivoluzionario, quando afferma che ogni essere umano, senza distinzione di classe, colore, cultura o fede, è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio stesso. Sappiamo che nel mondo antico erano i sovrani, i re, gli imperatori e i faraoni ad essere considerati l’immagine di Dio. Pertanto, la rivoluzionaria novità introdotta dalla Genesi sta nel fatto che siamo tutti considerati in un certo senso dei reali. Abbiamo ciascuno uguale dignità nel regno della fede e sotto la sovranità di Dio.

Da ciò ne consegue che ognuno di noi ha eguale diritto di costruire un matrimonio e avere dei figli, che è esattamente il motivo per cui, a prescindere da come leggiamo la storia di Adamo ed Eva – e sì che ci sono sostanziali differenze tra la lettura ebraica e quella cristiana – la regola di fondo della storia è: una donna e un uomo. O come si dice nella stessa Bibbia: «Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diverranno una carne sola» (Lettera agli Efesini, 5:31).

Ciononostante, la monogamia non diviene immediatamente la norma, persino all’interno del mondo della Bibbia. Tuttavia, molte delle storie in essa narrate, come ad esempio quella della conflitto tra Agar e Sara, o quella di Lia, Rachele e i loro figli, la vicenda di David e Betsabea, o quella di Salomone e le sue tante mogli, sono tutte critiche che segnano il cammino progressivo verso la monogamia.

Ed esiste una profonda correlazione tra il monoteismo e la monogamia, allo stesso modo in cui sussiste, nel caso contrario, tra adulterio e idolatria. Il monoteismo e la monogamia, difatti, comportano una stretta relazione tra l’Io e il Tu, tra me e l’altro, sia esso un Altro umano o divino.

Ciò che rende inusuale la comparsa della monogamia è che di solito i valori di una società sono quelli imposti dalla classe dirigente. E in qualsiasi società gerarchizzata la classe dirigente tende a perseguire la promiscuità e la poligamia, dal momento in cui entrambe moltiplicano le possibilità di riproduzione dei geni e, pertanto, la loro trasmissione alle generazioni successive. Con la monogamia, invece, i ricchi e i potenti ci perdono, laddove i poveri e i miserabili hanno tutto da guadagnarci. Perciò, l’avvento della monogamia va contro il normale fluire insito nel cambiamento sociale, ed ha rappresentato il reale trionfo di una dignità e un’eguaglianza universali.

Ogni moglie ed ogni marito sono esseri reali; ogni casa diventa un reggia quando viene arredata con amore.

Il quarto considerevole sviluppo risiede propriamente nel modo in cui esso ha influenzato la vita morale.

Tutti noi siamo ormai a conoscenza del lavoro di alcuni biologi evoluzionisti che si sono serviti di numerose simulazioni al computer e del reiterato esperimento del dilemma del prigioniero per spiegare il perché dell’esistenza dell’altruismo reciproco tra tutte le specie di animali sociali. Ci comportiamo con gli altri così come vorremo che gli altri facciano con noi e rispondiamo loro esattamente come essi ci rispondono. Come sostiene C. S. Lewis nel suo libro L’abolizione dell’uomo, l’etica della reciprocità è la regola d’oro condivisa da tutte le grandi civilizzazioni.

La straordinaria novità della Bibbia ebraica è l’idea che l’amore, e non più solamente la correttezza e l’onestà, sia un principio guida per il perseguimento della vita morale. Tre declinazioni dell’amore. «Ama il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, il tuo spirito e la tua forza». «Ama il prossimo tuo come te stesso». E quello, ripetuto non meno di trentasei volte nei libri di Mosè, «Ama lo straniero perché tu sai come ci si sente ad essere tale». O per dirla in altro modo: così come Dio ha creato il mondo naturale nell’amore e la misericordia, allo stesso modo noi siamo chiamati a creare il mondo sociale, nell’amore e la misericordia. E quell’amore è una fiamma che illumina il matrimonio e la famiglia. La moralità non è altro che l’amore tra moglie e marito, tra padre e figlio, esteso al di fuori, al resto del mondo.

Il quinto traguardo ha forgiato l’intera struttura dell’esperienza giudaica. Nell’antico Israele un’originaria e secolare forma di accordo, chiamata alleanza, fu presa e trasformata in un nuovo modo di pensare la relazione tra Dio e l’umanità, come nel caso di Noè, tra Dio e un popolo, come nel caso di Abramo e, successivamente, con gli israeliti sul Monte Sinai. Un’alleanza è come un matrimonio, è un impegno di mutua lealtà e fiducia tra due o più persone, nel rispetto ciascuno della dignità e dell’integrità altrui, per lavorare insieme, per raggiungere insieme ciò che nessuno dei due può conseguire da solo. E c’è una cosa che persino Dio non può ottenere da solo, ovvero vivere all’interno del cuore umano. Ed è per questo che ha bisogno di noi.

In questo senso la parola ebraica emunah, erroneamente tradotta come fede, in realtà significa lealtà, fedeltà, fermezza, determinazione, in altri termini non voltarsi le spalle quando il cammino si fa difficile, ma credendo nell’altro e onorando la fiducia che ripone in noi. Ciò che il testamento ha fatto, e lo si vede in quasi tutti i profeti, è stato comprendere la relazione tra noi e Dio nei termini di una relazione tra uomo e donna, tra moglie e marito. L’amore diviene così non solo la base della moralità, ma anche della teologia. Nel giudaismo la fede è una forma di matrimonio. E ciò è espresso forse nel modo più meraviglioso nel passaggio in cui Osea stesso pronuncia nel nome di Dio:

Mi prometto a te per sempre; Mi prometto a te nella rettitudine e nella giustizia, nell’amore e nella misericordia.

Mi prometto a te nella lealtà, e tu conoscerai il Signore.

Gli uomini ebrei pronunciano queste parole ogni mattina durante i giorni lavorativi, mentre si avvolgono le cinghie del tefillin – due piccoli astucci di cuoio kasher che gli ebrei utilizzano durante la preghiera del mattino. N.d.T. – intorno al dito come se fosse un anello nuziale. Ogni mattina rinnoviamo così il nostro matrimonio con Dio.

Questo conduce alla sesta e acutissima idea per cui la verità, la bellezza, la bontà e la vita stessa non esistono in alcuna persona o entità, ma risiedono “nel mezzo”, in ciò che Martin Buber ha definito Das Zwischenmenschliche, ovvero sia l’interpersonalità, la complementarietà del parlare ed essere ascoltati, del dare e il ricevere. Attraverso la Bibbia ebraica e la letteratura rabbinica, la conversazione è il veicolo della verità. Nella sua rivelazione, mentre parla, Dio ci chiede di ascoltare, e nella preghiera siamo noi che parliamo a Dio, chiedendogli di ascoltarci. Non c’è mai una voce univoca. Nella Bibbia i profeti conversano con Dio, così come nel Talmud due rabbini dialogano tra di loro. Per questo, a volte, penso che la ragione per cui Dio ha scelto il popolo ebraico sta proprio nel Suo amore per il dibattito. Il giudaismo è una conversazione segnata dalla presenza di più voci, né più né meno appassionante del Cantico dei Cantici, di un duetto tra un uomo e una donna, tra un’amata e il suo amato, e che il Rabbino Akiva ha chiamato il Santo dei Santi della letteratura religiosa.

Il profeta Malachia chiama il sacerdote maschio il guardiano della legge della verità. Il libro dei Proverbi definisce la donna di valore «nella cui lingua risiede la legge dell’amorevole bontà». È dunque nella comunicazione tra le voci della donna e dell’uomo, tra la verità e l’amore, la giustizia e la misericordia, la legge e la clemenza, che si struttura la vita spirituale. Nell’epoca dell’Antico Testamento ogni ebreo doveva consegnare mezzo siclo [moneta di Israele. N.d.T.] all’ingresso del Tempio per ricordarci che siamo soltanto una metà. Ci sono alcune culture per le quali non siamo nulla, altre invece per cui siamo tutto. La visione ebraica afferma che siamo solo una metà e che abbiamo bisogno di aprirci all’altro se vogliamo diventare un tutto, un insieme.

Tutto ciò ci conduce alla settima scoperta, quella ovvero per cui nel giudaismo la casa e la famiglia diventano l’asse portante della vita di fede. Nel solo verso della Bibbia giudaica in cui si spiega perché Dio scelse Abramo, Egli dice: «L’ho conosciuto affinché egli istruisca i suoi figli e la sua famiglia dopo di lui, affinché seguano il cammino del Signore perseguendo ciò che è giusto e corretto». Abramo fu scelto non per governare un impero, comandare un’armata, realizzare miracoli o pronunciare profezie, ma semplicemente per il semplice fatto di essere un genitore.

In uno dei più celebri versi giudaici, che noi pronunciamo ogni giorno e ogni notte, Mosè avverte, «insegnerai ripetutamente queste cose ai tuoi figli, ne parlerai quando siederai nella tua casa o quando camminerai per strada, quando ti coricherai e quando ti sveglierai». I genitori devono essere educatori, l’educazione è la conversazione tra le generazioni, e la prima scuola è la casa.

Ed è per questo che gli Ebrei sono diventati così profondamente orientati alla famiglia, e questo è stato ciò che ci ha salvato dalla tragedia. Dopo la distruzione del Secondo Tempio nell’anno 70, gli Ebrei vennero forzatamente dispersi per il mondo, ovunque hanno costituito una minoranza senza diritti e hanno sofferto alcune delle più atroci persecuzioni che un popolo abbia mai conosciuto. Ma nonostante ciò, sono sopravvissuti proprio perché non hanno mai smarrito tre cose fondamentali: il senso della famiglia, della comunità e della fede.

Tali valori vengono rinnovati ogni settimana in particolar modo durante lo Shabbat, il giorno del riposo, che è quando diamo al nostro coniuge e ai nostri familiari ciò di cui hanno in assoluto più bisogno e di cui, in particolare al giorno d’oggi, sono maggiormente affamati, vale a dire il nostro tempo. In passato ho curato la produzione di un reportage televisivo per la BBC sullo stato della famiglia in Gran Bretagna. Per la sua realizzazione invitai una persona che allora era la massima esperta in custodia dei minori, Penelope Leach, e un venerdì mattina la portai in una scuola primaria ebraica.

In quell’occasione la Leach ebbe modo di assistere ad una rappresentazione da parte dei bambini su che cosa avrebbero visto quella sera stessa attorno al tavolo durante la cena. C’erano una madre e un padre di cinque anni che benedivano i figli di cinque anni sotto lo sguardo attento di anziani nonni di cinque anni. Rimase affascinata dalla forza di questa istituzione totalizzante, e domandò ai bambini quale fosse il momento che più amavano dello Shabbat. Un bambino di cinque anni si rivolse a lei e le disse, «è l’unico giorno della settimana in cui papà non deve scappare di casa». Di ritorno a piedi dalla scuola, una volta aver finito di registrare, la Leach si rivolse a me dicendomi, «Rabbino capo, quel tuo Shabbat sta salvando i matrimoni dei loro genitori».

E così, questo è il modo che ho scelto per raccontarvi questa storia, alla maniera ebraica, iniziando con la nascita della riproduzione sessuale, passando poi per la richiesta squisitamente umana delle cure parentali, per il successivo trionfo della monogamia come requisito fondamentale per il raggiungimento dell’eguaglianza umana, per giungere poi al modo in cui il matrimonio ha forgiato la nostra visione della morale e di una vita religiosa basata sull’amore, l’alleanza e la fedeltà e, infine, al modo di vedere la verità come una conversazione tra chi ama e chi è amato. Il matrimonio e la famiglia esistono laddove la fede trova la sua casa e dove la Presenza Divina vive nell’amore tra moglie e marito, genitori e figli.

Che è successo poi? Cosa è cambiato? Di seguito suggerisco una mia personale interpretazione. Qualche anno fa scrissi un libro sulla religione e la scienza in cui con due frasi ho riassunto la differenza sostanziale che esiste tra di esse. «La scienza smonta le cose per vedere come funzionano. La religione le mette insieme per vedere cosa significano». Ed è lo stesso modo in cui pensare anche la cultura. Che cosa fa la cultura, mette le cose in relazione o tende piuttosto a separarle?

Ciò che rende eccezionale la famiglia, un’opera di elevatissima fattura religiosa, è ciò che la mantiene unita: la spinta sessuale, il desiderio fisico, l’amicizia, la compagnia, l’affinità emotiva, l’amore, la procreazione dei figli, le cure e la protezione che si assicurano loro, oltre ad una tempestiva educazione, un inserimento sicuro nella storia che assicura loro la formazione di un’identità specifica. Raramente un’istituzione riesce da sola a tessere insieme così tante spinte e desideri, ruoli e responsabilità. Il matrimonio ricopre di senso il mondo e gli conferisce un volto umano, il volto dell’amore.

Per un variegato numero di motivi, alcuni dei quali hanno a che fare con gli sviluppi della scienza in ambito biomedico (come il controllo delle nascite, la fecondazione in vitro e altri interventi di tipo genetico), alcuni che riguardano questioni etiche come l’idea che tutti abbiamo la libertà di fare qualsiasi cosa non comprometta quella altrui, le ragioni che hanno comportato il trasferimento delle responsabilità dall’individuo allo Stato, oltre ad altri più profondi cambiamenti all’interno della cultura occidentale, quasi tutto ciò che riguarda il matrimonio e che in precedenza univa, adesso sembra separare. L’esperienza del sesso è stata dissociata dall’amore, l’amore dall’impegno, il matrimonio dall’avere figli e il mettere al mondo dei figli dalla responsabilità di prendersene cura.

Il risultato è che nel 2012 in Gran Bretagna il 47,5% dei bambini sono nati al di fuori del matrimonio e si prevede che nel 2016 raggiungano la maggioranza. Sempre meno persone contraggono il sacramento, quelle che si sposano lo fanno solo dopo aver avuto dei figli e il 42% dei matrimoni finiscono con un divorzio. A mio avviso, la convivenza non può essere un surrogato del matrimonio, tanto più se consideriamo che la convivenza media in Gran Bretagna è inferiore ai due anni. E gli effetti di ciò si registrano in un vertiginoso aumento tra i giovani dei disturbi dell’alimentazione, del consumo di alcool e altre droghe, dei disturbi legati lo stress, della depressione e dei suicidi, tentati o effettivi. Il collasso dell’istituzione matrimoniale ha creato una nuova forma di povertà che si concentra nello specifico tra le famiglie monoparentali e, tra queste, chi ne risente maggiormente sono le donne: nel 2011 sono state le prime della lista, con un 92%, a trovarsi in una situazione familiare di questo tipo.

Attualmente in Gran Bretagna più di un milione di bambini stanno crescendo senza alcun tipo di contatto con i loro padri.

Ciò sta creando un divario all’interno delle società che non si registra da quando, circa un secolo e mezzo fa, Disraeli parlò dell’esistenza di “due nazioni”. Coloro che hanno il privilegio di crescere all’interno di un contesto stabile e caratterizzato dall’unione e l’amore tra due persone saranno soggetti mediamente più sani, sia emotivamente che fisicamente. Andranno meglio a scuola e avranno maggiore successo nel lavoro. Avranno fortuna nelle relazioni, saranno più felici e vivranno più a lungo. E sì è vero, esistono varie eccezioni. Ma una tale ingiustizia verrà gridata dai cieli alla terra [qui viene ripreso implicitamente un passo della Genesi 4:10. N.d.T.]. Ciò passerà alla storia come uno dei tragici esempi di ciò che Friedrich Hayek chiamava “la presunzione fatale” e che in qualche modo conosciamo meglio della saggezza secolare e che può addirittura sottrarsi alle lezioni della biologia e della storia.

Non voglio in alcun modo rispolverare gli antichi e limitati pregiudizi del passato. Questa settimana in Gran Bretagna è uscito un nuovo film che racconta la storia di una delle più grandi menti del ventunesimo secolo, Alan Turing, il matematico di Cambridge che gettò le basi filosofiche dell’informatica e dell’intelligenza artificiale e che diede un contributo sostanziale alla vittoria della guerra decifrando il codice navale tedesco Enigma. Dopo la guerra, Turing venne arrestato e processato a causa del suo orientamento omosessuale e, dopo essere stato sottoposto a castrazione chimica, morì all’età di 41 anni, secondo molti avvelenandosi con il cianuro. Quello è un mondo al quale non dovremmo mai e poi mai ritornare.

Ma la nostra compassione verso coloro che scelgono di vivere in modo differente non deve esentarci dall’essere avvocati dell’istituzione più umanizzante della storia. La famiglia, composta da un uomo, una donna e dei figli, non è una tra le tante scelte che si possono fare. Non è uno stile di vita. È il significato migliore che si sia mai scoperto per allevare le future generazioni e per consentire ai bambini di crescere in un contesto di stabilità e amore. È dove apprendiamo la delicata coreografia della relazionalità e tramite cui impariamo a gestire gli inevitabili conflitti che esistono all’interno di qualsiasi gruppo umano. È dove per la prima volta sperimentiamo il rischio del dare e ricevere amore. È dove una generazione passa i propri valori a quella successiva, garantendo per ciò stesso la continuità di una data cultura. In qualsiasi tipo di società la famiglia costituisce il crocevia fondamentale per il suo futuro e, per il bene dei nostri figli e del loro futuro, dobbiamo essere i suoi difensori.

Essendo questa un’assemblea di uomini di fede, consentitemi di concludere il mio intervento con l’esegesi di un passaggio della Bibbia. La storia della prima famiglia, il primo uomo e la prima donna nel giardino dell’Eden, non è generalmente considerata come un gran successo. Che crediamo o meno nel peccato originale, ad ogni modo non si risolve con il lieto fine. Ma dopo aver dedicato molti anni allo studio di questo testo, voglio proporne una lettura differente.

La storia si chiude con tre versi che a prima vista non sembrerebbero avere alcuna relazione tra loro. Nessun ordine. Nessuna logica. Nella Genesi 3:19, Dio dice all’uomo: «con il sudore della tua fronte mangerai il pane finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai». Poi, nel verso successivo, leggiamo: «L’uomo chiamò sua moglie Eva, perché è stata la madre di tutti i viventi». E nel successivo, «Poi l’Eterno Dio fece ad Adamo e a sua moglie delle tuniche di pelle, e li vestì».

Qual’è la relazione tra questi versi? Perché Dio ha detto all’uomo che era mortale e lo ha spinto a dare un nuovo nome a sua moglie? E perché quel gesto sembra cambiare l’atteggiamento di Dio nei loro confronti tanto da indurlo a compiere un gesto di misericordia come il procurare loro dei vestiti, quasi come se li avesse in un certo senso perdonati? Lasciatemi solo premettere che la parola ebraica per “pelle” è quasi indistinguibile da quella usata per “luce”, tanto che il Rabbino Meir, il grande saggio del secondo secolo, ha dato una lettura alternativa del testo, dicendo che Dio fece loro «indumenti di luce». Ma che cosa significa tutto ciò?

Se leggiamo attentamente il testo notiamo che fino a quel momento il primo uomo aveva assegnato a sua moglie un nome puramente generico. L’aveva chiamata semplicemente ishah, “donna” appunto. Ricordiamo cosa disse quando la vide per la prima volta: «Questa, finalmente, è ossa delle mie ossa e carne della mia carne. Ella sarà chiamata donna perché è stata tratta dall’uomo». Per lui essa era un corpo, non una persona. Le aveva assegnato un nome astratto, non un nome proprio. E per giunta la definisce come un suo derivato: qualcosa tratto dall’uomo. Per Adamo, Eva non è ancora qualcun altro, una persona in quanto tale e a sé stante, quanto una mera proiezione di se stesso.

Fintantoché l’uomo credeva di essere immortale non aveva essenzialmente bisogno di nessun altro. Ora però apprende di essere irrimediabilmente mortale e che un giorno tornerà ad essere polvere. C’è solo un modo, dunque, affinché qualcosa di lui possa continuare a vivere dopo la sua morte. E quel modo consiste nel generare un figlio. Ma come è ovvio egli non può farlo da solo, ha bisogno di una moglie che, a sua volta, non può darlo alla luce da sola. Solo lei ha il potere di mitigare la sua mortalità e non in quanto uguale a lui, ma proprio in quanto è fondamentalmente diversa. In quel momento, per Adamo, la donna cessa di essere una semplice entità e diventa una persona a sé stante, una persona con un nome proprio. Questo è ciò che l’uomo le diede: il nome Chavah, “Eva”, il cui significato, non a caso, è “(colei) che dà la vita”.

In quel momento, proprio mentre sono sul punto di lasciare l’Eden per affrontare il mondo così come lo conosciamo noi, un posto dominato dall’oscurità, Adamo compì il primo atto d’amore nei confronti di sua moglie, dandole un nome proprio di persona. Ed è a quel punto che Dio si dimostra misericordioso e fornisce loro gli indumenti di pelle (o come disse il Rabbino Meir di “indumenti di luce”) affinché vestissero la loro nudità.

Ed è così da allora, ogni volta che un uomo e una donna si incontrano reciprocamente in un legame di fedeltà, che Dio li veste di abiti di luce ed essi arrivano ad essere più vicini a Dio di quanto non lo siano mai stati, danno origine a nuova vita, trasformano la prosa della biologia nella lirica dello spirito umano e redimono l’oscurità del mondo mediante la radiosità dell’amore.”

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