sabato, Giugno 10 2023

Sherry Turkle

. Alone Together. Why we expect more from technology and less from each
other. Basic Books, New York 2011.

Che relazione posso mantenere con il mio computer non appena avrò letto
questo articolo? A quante e mail avrò
voglia di rispondere ogni giorno? Come cercherò di essere al passo con la
tecnologia che mi richiede di essere permanentemente on-line, sempre e
dovunque, che permette ai genitori di inviare decine e decine di messaggi o
di fare chiamate più volte al giorno ai propri figli? Che rapporto potrò
instaurare con questa tecnologia che apparentemente facilita la loro
socializzazione, incrementando esponenzialmente i contatti personali in
rubrica? Che evoluzione ha subito il nostro modo di relazionarsi e di
socializzare con il prossimo in rapporto allo sviluppo tecnologico?

Legarsi ad uno strumento hi-tech come un palmare, un cellulare, un computer
o portare avanti normali attività che presuppongono di essere connessi on line permanentemente, sono situazioni della vita ordinaria,
proprie del nostro secolo, che esigono una riflessione profonda su come la
tecnologia colpisce e influenza la nostra sfera sociale e le nostre
relazioni.

Sherry Turkle, psicologa ed insegnante di Sociale Studies of Science and Technology al MIT di Harvard
(Boston), esplora in questo libro, dopo The Second Self (1984) e Life on the Screen (1995), come i crescenti sviluppi della
tecnologia abbiano moltiplicato le possibilità di relazioni e contatti,
diminuendo però al tempo stesso la profondità e la forza dei nostri
rapporti, dando luogo ad un maggiore isolamento.

Il libro si divide in due parti: “The robotic moment. In solitude, new
intimacies”, (Il momento robotico. Nella solitudine, una nuova intimità
condivisa) e “Networked. In intimacy, new solitudes”, (Connessi.
Nell’intimità condivisa, una nuova solitudine). Il gioco di parole condensa
precisamente l’intenzione del libro: analizzare come la tecnologia ha
tentato di risolvere alcuni problemi di solitudine, di attenzione familiare
ma, contemporaneamente, sviluppando nuove possibilità di connessione e di
relazione, ha provocato una grande solitudine individuale.

Nella prima parte dell’opera Turkle illustra uno studio che ha realizzato
su differenti “robot” negli anni 80, 90 e nel nuovo millennio: dal
Tamagotchy e Furby fino a Paro, Kismet o Cog, benché si tratti di robot
molto diversi tra di loro e con funzioni
assai distinte, non sempre dello stesso livello. L’autrice ha studiato in
particolar modo la relazione che si stabilisce, in due precisi ambiti che,
a loro modo, cercano di dare delle soluzioni ad una situazione di
solitudine certamente non voluta: in ambito educativo, durante l’età
dell’infanzia, attraverso i giocattoli intelligenti e nell’ambito della
salute, con persone anziane e malate costrette a passare molto tempo da
sole.

In entrambe le sfere , lo sviluppo
tecnologico ha migliorato le prestazioni dei robot, riuscendo a creare una
interfaccia speciale e differente rispetto a quella tradizionale o con gli
assistenti medici, nel caso di persone malate: le somiglianze dei robot con
gli esseri umani genera una relazione speciale che va ben oltre
l’auto-proiezione e che possono procurare sollievo nelle persone che si
sentono sole o creare la sensazione di compagnia in quelle anziane. Il
problema, segnala l’autrice, è che la solitudine e la necessità di
relazione in entrambi i casi hanno una radice umana: la mancanza di
attenzione, di affetto e di tempo. Un robot non potrà mai sostituire le
persone perché non può amare o accompagnare nel senso più profondo del
termine, non può offrire un amore gratuito, un’attenzione disinteressata,
una donazione non programmata, libera, umana.

Nella seconda parte del libro , l’autrice
analizza, attraverso decine di interviste e analisi di comportamenti, il
modo in cui la tecnologia ha cambiato le relazioni tra le persone, grazie
ad Internet, alle e mail, alle
possibilità offerte da Second Life, ai dispositivi mobili e alle
reti sociali. Le enormi possibilità di arricchimento personale e
l’incremento dell’efficacia lavorativa che facilitano la vita a milioni di
persone, non hanno avuto però sempre effetti positivi: la chiave è tutta
nel modo in cui si accoglie la tecnologia nella nostra vita.

Turkle spiega i condizionamenti lavorativi che nascono dall’essere sempre
connessi e che possono generare gravi problemi familiari, ed analizza
alcuni effetti delle nuove tendenze negli adolescenti: sono cresciuti
incantati dalla tecnologia e la formazione della loro identità ha seguito
processi diversi rispetto a quelli delle generazioni precedenti perché
vivono in modo diverso l’autonomia dai genitori, e dedicano meno tempo alle
relazioni interpersonali che richiedono una presenza fisica o vocale
(telefono): preferiscono l’invio di messaggi o le reti sociali perché è più
facile esercitare un controllo emotivo e temporale sui testi scritti che si
presentano apparentemente come meno vulnerabili e meno imprevedibili,
capaci di dare una immagine migliore o più attraente.

Il problema è che i messaggi e le reti sociali creano una “etichetta
sociale”, nuove regole di relazione che a loro volta sviluppano una forte
pressione dalla rete virtuale alla realtà: necessità di essere sempre
disponibili on line per essere contattati, la tirannia di un
profilo virtuale progettato accuratamente per sembrare migliori, il
frequente aggiornamento dello stesso…La tecnologia progettata per
facilitare la vita potrebbe paradossalmente impadronirsi della nostra
esistenza. Non sono infrequenti casi di “stress” relazionale tra persone
giovani o maggiorenni.

L’autrice non demonizza di certo i progressi tecnologici, consapevole del
valore e delle grandi possibilità, come quella di mettere in collegamento
tra di loro persone sole, con poco tempo libero, di fortificare le
relazioni tra persone distanti, o permettere una maggiore efficacia,
velocità e simultaneità in ambito professionale. Tuttavia, analizza anche
alcuni dei problemi generati dagli utenti stessi: uno di essi è certamente
l’uso improprio della tecnologia da parte degli adolescenti: ad esempio
quando si creano profili e relazioni virtuali “sfacciati” o decisamente più
intimi rispetto alla realtà, confidando nell’anonimato delle reti sociali.

Un altro esempio è quello offerto da molti adulti multitasking,
sempre connessi che lasciano che sia la rete a decidere le priorità della
propria esistenza e che dedicano poco tempo reale ai propri figli o ai
propri coniugi, rimanendo vittime di molte frustrazioni sentimentali e
problemi psicologici; la difficoltà aggiuntiva in questo caso è che non
sono in condizioni di educare i figli ed esigere da loro un buon uso della
tecnologia perché essi stessi sono i primi a non dare il buon esempio.

Il messaggio morale del libro sembra essere la necessità di utilizzare la
tecnologia in modo adeguato alla nostra condizione umana, in accordo con
l’età e le situazioni personali. Tuttavia l’autrice, nonostante ponga
l’accento più volte sulla dimensione umana e personale, non offre proposte
educative concrete per adulti o adolescenti che permettano un uso
equilibrato della tecnologia, né criteri etici nel modo di coltivare le
relazioni virtuali.

Un’altro dei limiti del libro è la base empirica: Turkle menziona gli studi
realizzati attraverso decine di interviste in diverse scuole, università,
ospedali, ma non spiega in profondità il metodo, né la rappresentatività
dei campioni statistici utilizzati, anche perché corrispondono a studi
realizzati in diversi periodi di tempo con persone di età molto variegata.
Nella prima parte, infatti, molte interviste sono rivolte a bambini dai 5
ai 13 anni o a persone anziane o ammalate. Nella seconda invece ci sono
soprattutto adolescenti o adulti in situazione lavorativa.

Le dichiarazioni degli intervistati sono certamente valide a livello
statistico-quantitativo, ma il problema è che non sono omogenee, dando
luogo così a un’idea dispersiva e non del tutto chiara, anche perché si
mischiano con conversazioni provenienti anche da altri contesti. Non sono
chiari, per esempio, i motivi che portano ad unire le affermazioni di
un’adolescente con quelle di un impiegato o un studente universitario, o
con quelle di una persona con problemi psicologici.

Un altro aspetto migliorabile è la volontà di non affrontare sul piano
etico i comportamenti, la natura o i contenuti delle relazioni che si
generano attraverso la tecnologia. In realtà molte affermazioni di
adolescenti e bambini con genitori assenti o di adulti con difficoltà
relazionali o confessioni anonime sul web, mirano alla necessità di far
emergere anche una dimensione etica ed un’apertura che va oltre il mondo
fisico e delle sensazioni perché stanno in gioco concetti come famiglia,
amore o intimità. L’autrice non fa riferimento alla trascendenza, ma sembra
intuire questa necessità di apertura quando realizza un vago riferimento
alla fede ebraica.

Infine, è da segnalare come limite generale che alcuni prodotti tecnologici
di cui si parla con molto entusiasmo, come Furby o Second Life, hanno avuto un’influenza passeggera o hanno perso
forza commerciale negli Stati Uniti ed in Europa, motivo per cui non siamo
sicuri se devono essere trattati come fenomeni del passato o del presente.

Il libro è interessante e realizza un’analisi attuale della realtà.
L’autrice è cosciente che non è possibile fare retromarcia e cambiare gli
equilibri che la tecnologia svolge nelle nostre vite. La chiave sta senza
dubbio nel definire meglio le nostre priorità vitali…ma come? Questo è il
vero problema, che può essere però lo spunto da cui partire per future
riflessioni.

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