venerdì, Aprile 19 2024

La vecchiaia è davvero l’età in cui ciascuno deve ammainare le vele, come
diceva Dante Alighieri?

Sappiamo bene che il mondo occidentale sta invecchiando.
Gli studiosi ci dicono che il numero di figli è sempre più in diminuzione,
mentre aumenta il numero degli anziani. Eppure questo dato, che dovrebbe
sensibilizzarci (renderci più sensibili?) e pensare un mondo più
accogliente per tutti, contrasta con la cultura del profitto che
contraddistingue la nostra epoca, per cui l’anziano, non più produttivo,
diventa spesso un peso per la società e per la famiglia. Se poi l’anziano è
gravemente malato, il binomio diventa ancor più pesante.

Ho da poco perso mio padre, aveva 91 anni, malato di Parkinson da dieci
anni, di cui gli ultimi quattro passati praticamente immobilizzato. So
quanto sia difficile accettare la malattia di una persona cara, quanto sia
faticoso man mano che la malattia avanza e tutte le funzioni si arrestano,
quando arriva solo a guardarti, ma non riesce più a dire neanche una
parola; conosco la tentazione di dare ascolto a quella voce che sempre più
violentemente ti urla nel cuore una domanda: “che senso ha?”

E la risposta me l’ha data proprio lui, con il suo portare silenziosamente
la sua malattia insegnandomi che il senso della sua vita era la sua stessa
presenza. Sì, vali perché ci sei, perché esisti.

Vecchiaia: sconfitta dell’uomo o età d’oro?

Secondo i dettami della cultura dello scarto in cui siamo immersi, una vita
anziana e malata non solo non produce, ma è un onere da sbarazzarsene il
prima possibile. L’anziano è fragile, se è segnato dalla malattia lo è
ancor di più e può sentire su di sé il peso della solitudine. Ma abbiamo
paura della fragilità, non la accettiamo, in quanto non corrisponde agli
standard di efficienza che il mondo ci richiede. Ci si affanna (?) nel
rincorrere l’eterna giovinezza e molte persone si sottopongono ad ogni
sorta di azione per allungare la vita. E’ evidente quindi che la vecchiaia
viene vista come una sconfitta dell’uomo, una resa al tempo. Proviamo a
pensarla, invece, come una fase della vita che acquista un valore
inestimabile, come accade agli oggetti antichi che nessuno si sognerebbe di
gettare via.

Entra in questo ambito la dolorosa realtà dell’eutanasia attiva, quella pratica legalizzata ormai in diversi paesi
del mondo, che, sotto le mentite spoglie di consentire ad ognuno di “essere
padrone della propria vita” o di farlo “per il suo bene”, consente a chi è
vecchio, malato, stanco di vivere di assumere un farmaco che “dolcemente”
lo accompagni verso la morte. Quindi, invece di domandarci come e dove
trovare il senso di una vita che apparentemente un senso non ce l’ha, per
poi proteggere e valorizzare la vita in ogni suo stadio, ci si preoccupa di
regolamentare la morte. Eppure io negli occhi di mio padre, pur se stanco e
provato dalla malattia e pur con i suoi scoraggiamenti, ho sempre visto un
desiderio di futuro e una richiesta di compagnia e aiuto, oltre che di
infinita gratitudine. La malattia, la sofferenza e la solitudine dei nostri
anziani non vanno ignorate, ma la soluzione non è un facile lasciapassare
per l’aldilà, piuttosto prendersi cura di quella
sofferenza fisica e psichica.

Sofferenza e malattia: una possibilità di senso

Torniamo però alla domanda cruciale: che senso ha la vita di un vecchio e
per giunta malato? Potremmo trovare una risposta riflettendo sull’essere
umano come creatura all’apice della scala gerarchica della natura. La
visione cristiana aggiunge una base trascendente: l’uomo è immagine di Dio,
pertanto la dignità della persona è un valore intrinseco e permanente, non
dipendente da prestabiliti standard di bellezza ed efficienza fisica e
psichica. E la sofferenza e la malattia non sono prive di significato, ma
danno alla vita quella possibilità di senso che la rende unica e
singolarmente preziosa. Perché il

senso dell’esistenza di qualcuno deriva dal semplice fatto di esistere
e non dalle qualità o capacità in atto del soggetto che la possiede.

E’ facile, infatti, riconoscere la bellezza, il senso e la dignità in una
persona giovane e sana, ma il rischio è che risplenda la bellezza, la
prestazione, la salute, invece è proprio nell’anziano malato, nella sua
umanità nuda, che emerge e risplende la bellezza dell’essere umano: nelle
sue rughe, nelle sue piaghe, nel suo essere intrappolato nell’immobilità,
nel suo essere dipendente. Come dalla conchiglia esce la perla, così

la fragile vecchiaia rivela la bellezza e la dignità insita nel
profondo dell’essere

. Ecco che allora gli anziani malati ci consentono di riconoscere

nella vulnerabilità la radice della bellezza del valore della vita
umana

e scopriamo che, nella dipendenza reciproca, troviamo il senso della vita,
che è prendersi cura gli uni degli altri fino alla fine. Compagnia, tenerezza e amore. Questo è l’antidoto contro
la cultura dello scarto e della morte.

A conferma di questo, riporto una delle ultime cose che, con grande fatica,
mi ha detto mio padre un pomeriggio che i miei fratelli ed io eravamo
casualmente tutti da lui: “Oggi sono proprio contento!” e mentre io, figlia
di questa società, dentro di me pensavo come potesse essere contento uno
che è immobile in un letto, pieno di piaghe e di dolori, lui ha aggiunto:
“Perché oggi siete tutti qui!”

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