venerdì, Aprile 19 2024

Questa domenica ho visitato una mostra dedicata al genio di Van Gogh. Fra tutte le opere sposte, mi ha colpito particolarmente “il vecchio che soffre”, un dipinto a olio su tela realizzato nel 1890. Questo quadro rappresenta un uomo anziano e privo di forze. La sua posizione lascia intravedere una situazione tragica, piena di sofferenza e di devastazione, una condizione di impotenza dinnanzi il proprio dolore.

Sicuramente la risonanza del dipinto sulla mia anima ha a che fare con la mia biografia: Mi occupo di accudire malati disabili nella Congregazione Figlie di Santa Maria della Provvidenza. Perciò mentre vedevo il dipinto non ho potuto fare a meno di ricordare alcuni dei nomi resi noti dalla cronaca giornalistica in Italia dal 2000 per non aver superato la prova del dolore, persone che sono ricorsi all’eutanasia fra il clamore dei media: Stefano di Carlo, Emilio Vesce, Piergio Welby, Giovanni Nuvoli, Eluana Englaro, Mario Monicelli, Lucio Magri, Piera Franchina, Carlo Lizzani, Walter Piludu, Dj Fabo, Davide Trentini, Loris Bertocco, Patrizia Cocco, Federico Carboni, Elena “Adelina”.

Il tema dell’eutanasia non soltanto torna periodicamente a farsi presente nel dibattito pubblico polarizzando chi difende il “diritto alla morte” da chi sostiene la vita, ma rimane “materia in sospeso” sempre latente, perché non riguarda soltanto progetti di legge presentati al Parlamento, referendum respinti dalla Corte Costituzionale, ma soprattutto, volti concreti, storie di vita strazianti dal punto di vista di chi ne è coinvolto. Anzi, in realtà, tutti lo siamo.

Ma morire può essere davvero una scelta libera? Di solito, le controversie legate al fine vita vengono identificate con la domanda: «Ha una persona che soffre il diritto di scegliere di morire?». Invece, a mio avviso, il tema dovrebbe, essere inquadrato in una prospettiva orientata alla vita. Quindi, le prime domande da porsi sarebbero: «Perché una persona arriva a desiderare di morire?»; «cosa possiamo fare per prevenire questa richiesta?»

Il valore profondo della vita umana

Alcuni fattori limitano la capacità di cogliere il valore profondo di ogni vita umana: il primo è il riferimento a un uso equivoco del concetto di “morte degna” in rapporto con quello di “qualità della vita”. In virtù di questo principio, la vita viene considerata degna solo se ha un livello accettabile di qualità, in ordine alla presenza-assenza di determinate funzioni psichiche o fisiche, o spesso identificata anche con la sola presenza di un disagio psicologico. Secondo questo approccio, quando la qualità della vita appare povera, essa non merita di essere proseguita. Così, però, non si riconosce più che la vita umana ha un valore in sé stessa.

Un secondo ostacolo è una erronea comprensione della “compassione”. Per non soffrire è meglio aiutare il paziente a morire attraverso l’eutanasia o il suicidio assistito. In realtà, la compassione umana non consiste nel provocare la morte, ma nell’accogliere il malato, nel sostenerlo dentro le difficoltà, nell’offrirgli affetto, attenzione e i mezzi per alleviare la sofferenza.

Infine, un terzo fattore è un individualismo crescente, che induce a vedere gli altri come limite e minaccia alla propria libertà. Alla base di un tale atteggiamento l’individuo pretende di salvare sé stesso dai limiti del suo corpo, soprattutto quando fragile e ammalato. Ma bisogna trovare un senso alla sofferenza e alla malattia e non dimenticare mai che la fragilità è cioè che ci rende preziosi.

La vera malattia del nostro tempo: la solitudine

L’individualismo è alla radice di quella che è considerata la malattia più presente del nostro tempo: la solitudine. L’idea di fondo è che quanti si trovano in una condizione di dipendenza, vengono di fatto accuditi in virtù di un favore. Così, il bene si riduce ad essere il risultato di un accordo sociale: ciascuno riceve le cure e l’assistenza che l’utile sociale ed economico rendono possibili o convenienti. Ne deriva così un impoverimento delle relazioni interpersonali, che divengono fragili, prive di quella solidarietà umana e di quel supporto sociale così necessari ad affrontare i momenti e le decisioni più difficili dell’esistenza.

Occorre superare la visione individualistica della questione, per porla nel contesto molto più ampio delle relazioni sociali, coinvolgendo tutti, familiari, infermieri, medici, chiamati a vivere con fedeltà il dovere d’accompagnamento degli infermi in tutte le fasi della malattia, e in particolare in quelle più dolorose dell’esistenza, come Gesù Buon Samaritano, che rispetta, difendi, ama e serve la vita, ogni vita umana.

La capacità di chi assiste una persona in condizioni critiche di salute, deve essere quella di “saper stare” (so-stare), vegliare con chi soffre l’angoscia del morire, “consolare”, ossia di essere-con nella solitudine, di essere conpresenza che apre alla speranza, perché inguaribile non è mai sinonimo di incurabile.

Mentre vedevo il dipinto di Van Gogh prima riferito ho pensato a ciascuno dei quei nomi e al loro dolore, manifesto eloquente di un’umanità che anela l’incontro con il Signore della vita, l’unico capace di versare, in maniera efficace, sulle ferite umane l’olio della consolazione e il vino della speranza.

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