domenica, Giugno 4 2023

Come stanno cambiando i videogiochi – e noi con loro – al tempo degli
smartphone e di Facebook? Cosa fare sul piano psicopedagogico per limitarne
i rischi ed esaltarne le potenzialità? Ne abbiamo parlato con Maria Beatrice Toro, psicologa e psicoterapeuta esperta di età
infantile e adolescenziale e di nuovi media, temi di cui si è occupata in
varie pubblicazioni. Ha curato di recente


Adolescenza e Adultescenza


, testo di grande attualità recensito anche sul nostro sito.

Se pensate che siano solo un passatempo domestico per ragazzi asociali,
solitari e sedentari, correte ad aggiornarvi. I videogiochi sono sempre di
più un intrattenimento senza età e di gruppo, che non conosce limiti di
tempo e di spazio, ma pure un potente strumento per acquisire e sviluppare
abilità. Mezzi che costituiscono l’architrave di un approccio alla realtà –
definito gamification secondo cui modellare gli
atteggiamenti e i comportamenti quotidiani sugli schemi del gioco può
facilitarci la vita e renderci felici. Ma anche mezzi che, se male
utilizzati, possono scatenare aggressività e dare dipendenza.

L’idea di “giochificare” la realtà per stare meglio è suggestiva. Cosa ne
pensa dottoressa Toro?

«L’esplosione dei videogiochi ha favorito un’estensione dei mezzi e dei
tempi del gioco e la diffusione di una modalità ludica di vivere la
quotidianità. Un modo per gratificarsi, certo, ma anche per provare ad
eludere l’ansia inoculata dalla precarietà del post-moderno. Si tratta, in
ogni caso, di un fenomeno che ingloba anche forme di gioco più
tradizionali…».

A cosa si riferisce? Ci faccia un esempio…

«Pensi a giochi di ruolo dal vivo. Pure qui il confine con la realtà tende
ad essere particolarmente labile e atteggiamenti assunti nella finzione
ludica – se mantenuti nella quotidianità – possono provocare un senso di
de-responsabilizzazione riguardo alle proprie azioni. È chiaro, però, che
in questo processo di giochificazione della realtà i media
digitali rivestono un ruolo fondamentale per via della loro indiscussa
capacità di rendere tutto coinvolgente e verosimile».

Un’esperienza arricchita dalla tecnologia tridimensionale, ma anche da
intrecci narrativi che l’ibridazione con il cinema ha reso più avvincenti e
credibili…

«La natura intrinsecamente gratificante e fortemente attrattiva del gioco è
esaltata nei videogame da un iperrealismo colorato, sonoro e cinestesico
capace di catturare intensamente l’utente. Sotto questo profilo, la giochificazione ha nella ricca disponibilità di giochi online e
offline un effetto moltiplicatore. A partire dall’infanzia, l’attività
ludica ricopre sempre più tempo e contagia spazi della vita considerati da
sempre distanti dall’area del piacere: scuola, formazione, lavoro».

Mezzi straordinari in grado di modificare a fondo anche la struttura del
cervello di noi adulti, «immigrati digitali»…

«A differenza di quanto accadeva in passato, lavoriamo meno con i mezzi
dell’immaginazione e della logica obbligando il nostro cervello a
manipolare velocemente icone e a orientarsi in un mare magnum di
informazioni. Possiamo immaginare le nostre azioni quotidiane come uno
sfioramento continuo di schermi interattivi: bancomat, telefoni
touch-screen, tablet. Un dominio della percezione sul pensiero
simbolico…».

Mi scusi, ma questo vuol dire che è cambiato il nostro modo di apprendere?

«Fino a un decennio fa per conoscere ricorrevamo ai manuali d’uso,
investendo tempo e fatica mentale; oggi preferiamo procedere per tentativi,
fino a indovinare i movimenti giusti. Un metodo se si vuole più
economico, ma non altrettanto stimolante per le aree cerebrali deputate
all’impostazione delle azioni; con riferimento, in particolare, al lobo
frontale sinistro. Una sorta di regressione infantile del cervello».

Quali novità hanno introdotto i videogame nel percorso di crescita
psicologico, fisico e sociale dei bambini?

«Due spunti di riflessione. Sempre più bambine danno rilievo eccessivo
all’immagine, anche per via dei messaggi disfunzionali veicolati dai
videogiochi. Trascorrere ore e ore a modificare radicalmente a colpi di
mouse il look di bambole – che un tempo ci accontentavamo di vestire e
pettinare – tende ad insinuare l’idea che un giorno si potrà fare lo stesso
con il proprio corpo. Ad esempio, ingrassare e dimagrire a volontà e in un
batter di ciglia. Più in generale, i bambini di oggi tendono ad interagire
sempre di più a distanza, mediante personaggi virtuali. Dati psicologici
davvero impressionanti e preoccupanti».

A tal proposito, studi sull’American Journal of Play e Pediatrics indicano che l’eccessiva ansia dei genitori
spinge i bambini di oggi a giocare sempre di più in casa, esponendoli a
rischi di depressione e addirittura di dipendenza in caso di abuso di
videogiochi...

«Basta un po’ di buonsenso per comprendere che davanti ai monitor i bambini
non possono fare tutte le esperienze di cui necessitano. Il tempo
destrutturato da sempre offre loro la possibilità di inventare un
diversivo, un gioco, un’attività motoria non preconfezionata e divertente,
attivando risorse di creatività e di intelligenza che sarebbe un grave
errore soffocare con il solo intrattenimento digitale…».

Il problema sta, dunque, nell’approccio…

«Guardi, i genitori di oggi sono molto affettuosi coi figli, al limite
dell’intimismo, ma una vita articolata, complessa e per molti versi
precaria genera in loro un tale senso di ansia da portarli a confondere la
sicurezza con l’incolumità. Rinchiuderli in casa o impegnarli in
attività eccessivamente organizzate e presidiate da adulti – genitori,
insegnanti, allenatori o tate che siano – impedisce ai bambini di maturare
la dimensione della separatezza e di misurarsi in modo spontaneo e diretto
con i coetanei, apprendendo lezioni che l’elettronica, da sola, non può
veicolare».

Va detto che l’industria dei videogiochi si rivela in tantissimi casi un
prezioso alleato dei ragazzi, abbinando divertimento e utilità. Funky Nurse, sviluppato dal Teenage Cancer e dalla Miniclip per
aiutare in modo gratuito i piccoli ammalati di cancro, è emblematico in
questo senso…

«I videogiochi permettono di affrontare con efficacia temi delicati, anche
di tipo sanitario, dando risposte concrete ai problemi. Nella
diversabilità, ad esempio, modalità di presentazione degli stimoli
didattici, costruite per superare difficoltà fisiche e cognitive,
consentono a tanti bambini di ricevere una formazione adeguata ai bisogni,
favorendone il fare gruppo e il sentirsi sostenuti, supportati, compresi».

Lei è esperta anche di tecno-dipendenze: pensa che la pratica dei giochi
online – facilitata dai cellulari sempre più evoluti e dai social network –
possa aggravare il quadro di riferimento?

«Il fenomeno va monitorato con attenzione. Piattaforme e dispositivi di
nuova generazione favoriscono l’estesa diffusione di esperienze ludiche a
basso impegno che consentono di giocare con minori abilità cognitive,
emotive, psicomotorie. I multiplayer richiedevano in passato un notevole
dispendio di energie e di capacità e questo in parte scoraggiava chi era
meno abile nel gioco. Oggi giocano tutti e di continuo, ma con meno agonismo, facendo più cose contemporaneamente. E ciò li espone ad
un maggior rischio di dipendenza…».

Ciò sembra valere in particolare per la pratica dei giochi d’azzardo,
segnalata dall’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR in aumento tra i
giovani, probabilmente anche sulla spinta delle modalità solitarie, veloci
e decontestualizzate tipiche dalla Rete…

«Parliamo di una realtà diffusa, che somma ossessività a danno economico,
spesso difficile da cogliere. Contare ore di connessione o quanti giochi si
possiedono – i vecchi criteri per diagnosticare la tecno-dipendenza online
– oggi non ha più tanto senso, visto l’uso intensivo che tutti noi facciamo
dei media digitali. È più utile guardare ad altri possibili campanelli
d’allarme: ad esempio, se per giocare i nostri figli trascurano i restanti
aspetti della loro vita e presentano segnali di stanchezza e nervosismo
assieme a una più che marcata tendenza a mentire, è molto probabile che ci
sia un disturbo».

Una sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti ha stabilito che non può
essere vietata la vendita ai minori di videogiochi violenti, gli stessi
accusati da molti di stimolare a loro volta violenza. Non si diceva un
tempo che giocare a fare la guerra fosse una sana forma di scarico
dell’aggressività?

«Giocare a fare la guerra è un gioco simbolico attraverso cui i
bambini mettono in scena la propria aggressività, gestendola senza restarne
scossi. Esporre i minori a contenuti intrisi di sangue, violenza e sesso è
invece traumatico, poiché costituisce un’esperienza critica per la loro
personalità. Le scene violente entrano nella loro sfera emotiva senza
essere elaborate, poiché la mente infantile non è capace di affrontare
situazioni che esibiscono la morte, la sessualità esplicita, l’offesa al
corpo…».

Non tutti sanno, a tal proposito, che in Europa esiste un sistema di
classificazione per tutelare i minori (PEGI), le cui indicazioni sono
riportate sulle etichette dei giochi. Ma ritornando alla domanda: questi
mezzi possono provocare emulazione?

«Il tema è controverso. Molti studi ci dicono che il comportamento violento
successivo alla fruizione di contenuti di pari tenore è spesso frutto di
una desensibilizzazione emotiva legata alla sovraesposizione. A differenza
di noi adulti, i ragazzi hanno scarse risorse sul terreno dell’empatia e
del dolore, al punto da rimanere sorpresi dinanzi agli effetti reali del
loro agire. La cronaca è piena di fatti, con protagonisti minorenni, in cui
è possibile notare una qualche sovrapposizione tra piano della realtà
virtuale e piano della realtà quotidiana».

Per fortuna, gli aspetti positivi non mancano. Studi suPerception e sul Personality and Social Psychology Bulletin rivelano, ad esempio,
che i videogiochi strategici e d’azione facilitano lo sviluppo
cognitivo e che quelli con contenuti pro-sociali aiutano a sviluppare nella
realtà gli stessi modelli di comportamento…

«Se ben sfruttata, l’interattività dei giochi digitali può essere di grande
aiuto. Ad esempio, per stimolare curiosità e creatività, rafforzare la
memoria, pensare in maniera organizzata o mettersi nei panni degli altri.
Può trarne beneficio pure l’autostima, così importante per la salute
psichica. Non così le forme più solide di amicizia, per le quali
resta insostituibile la condivisione faccia-a-faccia».

Dottoressa Toro, quali consigli dare in conclusione a genitori ed
educatori?

«In Adolescenza e Adultescenza raccomandiamo un pieno recupero
della responsabilità educativa. In concreto ciò significa, anche riguardo
ai videogame, accostarsi ai ragazzi con semplicità e nel rispetto dei
ruoli, mettendosi davvero in gioco e in relazione con loro, interessandosi
e condividendo ciò che essi fanno e favorendo il confronto su tempi e
modalità di fruizione. Con l’obiettivo finale di individuare regole certe e
approcci corretti e responsabili».

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