giovedì, Novembre 30 2023

Nell’epoca dei social e della comunicazione, l’immagine è tutto. Una sorta
di mantra che risuona e rimbomba sia sui media tradizionali sia su quelli
digitali. Apparire per poter essere, questa sembra essere
la nuova e folle regola da seguire, per dimostrare al mondo di esistere,
anche a costo di rimetterci la vita.

Un fenomeno globale che coinvolge giovani e meno giovani, un trend che ha
origine nel passato ma che oggi miete anche vittime: se di fatti un tempo
l’autoscatto sembrava qualcosa di bello per tenere nei propri ricordi un
bel momento, ora si perde la vita nella speranza di immortalare un attimo
di brivido, una sensazione che possa essere stupefacente e attrarre il
maggior numero di like o follower.

Una corsa verso un illusorio successo che però alle volte, troppe
ultimamente, porta alla morte.

I dati dei morti di selfie

Già un anno fa, l’Università Carnegie Mellon della Pennsylvania aveva
stilato una lista di 170 nomi di persone morte per selfie estremi. Tutti
morti per aver cercato di fotografarsi in bici, per poi battere la testa e
morire, in cima ad un palazzo appesi ad un cornicione, perdendo
l’equilibrio, o addirittura sui binari di un treno ad alta velocità.

Un trend che coinvolge tutti, senza limiti d’età ma che spesso decreta la
fine della vita per i giovanissimi che sfuggono al controllo di genitori e
forze dell’ordine alla ricerca del selfie più “figo” per far parlare di sè.

Un fenomeno talmente in crescita da influire anche sulle decisioni di
alcuni stati: lo Stato indiano di Goa, ad esempio, ha deciso di vietare i
selfie a causa delle numerose morti provocate dai ripetuti tentativi di
realizzare scatti estremi.

Perché ci facciamo i selfie?

Selfie significa autoscatto, ma semanticamente anche “piccolo sé”, come ha
proposto

Pamela Rutledge, della Massachusetts School of Professional Psychology

, dal momento che il dittongo “ie” rinvia al diminutivo connotandolo di
affetto.

Il 31% degli adolescenti si fa i selfie per ricordo,l’11% per noia e l’8,5% per ridere. Il 15,5% condivide tutti i selfie sui social e WhatsApp,
soprattutto le ragazze. Dati già emersi nel 2016 a seguito dell’indagine a
cura dell’Osservatorio sulle tendenze e comportamenti degli adolescenti,
presieduto da Maura Manca, psicoterapeuta e direttore di AdoleScienza.it.

In un periodo storico contaminato da cellulari in ogni dove, il selfie ha
la meglio su ogni forma di comunicazione: è l’espressione per eccellenza
del narcisismo vuoto che caratterizza il nostro tempo. Talvolta insensato e
mortale, non rappresenta altro che il tentativo disperato di affermare la
propria identità e di sentirsi parte di un sistema.

La gratificazione derivante dalla condivisione della propria immagine viene
decretata dai segni di consenso che le community virtuali offrono (like,
condivisioni, commenti). Alla ricerca di un personal branding o
commercializzazione di sè stessi, si arriva a perdere tutto, anche la vita.

La possibilità di condividere quei momenti immortalati in una foto, figlie
di un uso spasmodico di strumenti tecnologici avanzati, contribuiscono a
dar vita a quello che Musil definiva l’ “uomo senza qualità”: volubile,
senza uno scopo al servizio del quale porre le sue grandi doti
intellettuali.

Come sostiene Christopher Lasch, nel corso degli anni il
concetto di narcisismo ha assunto una dimensione sociale, riflettendo
orientamenti e comportamenti quotidiani, e che la caduta delle grandi
ideologie ha condotto a modelli di individualismo esasperato che hanno
spinto o verso pratiche di autocoscienza o al culto del proprio corpo o
alla liberazione sessuale.

Un narcisismo patologico, spinto all’estremo con l’avvento dei social
network e che oggi viene vissuta come comportamento normale e socialmente
accettabile.

In fondo, chiunque può godere della bella sensazione di guardare il proprio
selfie e accorgersi di aver dato vita a un’opera fantastica, ma è
altrettanto patologico richiare di perdere la vita per scattare un selfie
che probabilmente non si vedrà mai.

Ma perchè i giovani sono così attratti dai selfie?

I giovani, da sempre, hanno bisogno di definire e affermare la propria
identità. Durante l’adolescenza, soprattutto, e durante tutta la vita, chiunque ha bisogno di definire il proprio “sè”, in un
oscillare continuo tra il “sé personale” ossia come ognuno di noi vede sè
stesso e il “sé sociale”, come gli altri percepiscono noi stessi.

Nei periodi di definizione della propria identità, come l’adolescenza, i
selfie diventano uno degli strumenti più utilizzati per capire chi si è e
chi si vuol diventare.

La domanda sorge spontanea: ma in passato, senza selfie, come si provvedeva
a creare il proprio sè? Attraverso le interazioni con i pari, con i gruppi
di riferimento e con il gruppo familiare.

E il nocciolo della questione è sempre lo stesso: la mancanza di tempo
dedicata ai giovani, in un periodo estremamente delicato per la loro
crescita ed il loro sviluppo.

Un gruppo di pari sempre più virtuale, che condivide solo la parte bella
della propria vita, del resto chi condivide i momenti brutti o tristi sui
social?

Un gruppo familiare in cui le regole vengono messe da parte e si giustifica
tutto in nome della modernità e dell’utilizzo della tecnologia.

Inoltre,

gli adulti sempre più adolescenti che competono con i propri figli
anche sui social. Sempre più amici e meno genitori, sempre meno attenti
alle abitudini di consumo degli strumenti tecnologici.

Insomma basterebbe accantonare i telefoni durante la cena, dedicare più
tempo ed energia per comprendere ciò che davvero i giovani vogliono,
supportarli e aiutarli nella definizione del proprio sè senza demonizzare i
mezzi tecnologici ma aiutandoli a comprendere alcune dinamiche sociali,
prima che interattive.

A giocare un ruolo fondamentale è l’ascolto. Dietro selfie
più o meno pericolosi ci sono ragazzi alla ricerca del rinoscimento sociale
che forse non hanno neanche dentro le mura domestiche. Ai genitori spetta
il compito di accettare questa nuova sfida, aprire il dialogo in famiglia e
trasformare il tavolo di casa in un momento di convivialità dove, tablet e smartphone rimangono spenti e in tasca.

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