lunedì, Dicembre 9 2024

Una lucida analisi sulle serie tv italiane e internazionali di Armando Fumagalli, ordinario di Teoria dei linguaggi all’Università Cattolica di Milano, autore del recente libro The Dark Side – Bad Guys, antagonisti e antieroi del cinema e della serialità contemporanei

L’autunno appena concluso ha visto in Italia il lancio di due serie televisive che sono uno dei maggiori impegni produttivi di questi anni per le nostre reti: su RaiUno I Medici e su Sky The Young Pope. Il budget è stato di 25 milioni per la prima e 40 per la seconda; numeri di tutto rispetto che segnalano il fatto che anche l’Italia è entrata nel grande mercato internazionale delle serie: entrambe infatti sono state vendute in moltissimi Paesi del mondo.

Però, al di là delle grandi differenze di contenuto, queste serie, benché accomunate da un analogo investimento economico, sono un po’ l’emblema di due diverse linee di produzione che hanno grandi differenze fra loro.

Da una parte abbiamo infatti le serie che vanno su canali “generalisti”, cioè le reti in chiaro (non a pagamento) che si rivolgono a fasce di pubblico molto ampie. I circa 7 milioni di ascolto medio dei Medici lo testimoniano. Sono le serie che negli Stati Uniti si chiamano (o si chiamavano, perché alcune hanno appena chiuso) CSI,The Good Wife, NCIS, Person of Interest, The Mentalist e fra le commedie The Big Bang Theory, serie che puntano a un pubblico di 10 e più milioni di persone, arrivando in qualche caso e in qualche stagione a toccare anche i 20.

Dall’altra abbiamo le serie che vanno in onda sulle reti a pagamento, quelle che in Usa vengono chiamate familiarmente cable (perché il segnale viene trasmesso via cavo), e che sono le serie per certi aspetti più innovative, ma anche molto spesso più trasgressive: hanno iniziato alcuni anni fa Sex and the City e i Sopranos e negli anni più recenti queste serie si chiamano Game of Thrones,Dexter, Spartacus, Californication, Breaking Bad, The Walking Dead, Orange is the New Black, Westworld

Entrambe le tipologie di serie televisive hanno un ruolo molto importante nel panorama culturale contemporaneo, in particolare per quanto riguarda i “consumi culturali” dei giovani e dei giovani adulti. Se infatti presso il pubblico più generale e più ampio (che va dai bambini agli anziani) sono le serie nazionali le più viste (da noi Don Matteo e Montalbano su tutte, ma esistono casi analoghi in Germania, Spagna, Inghilterra, un pochino meno in Francia) il pubblico della fascia 18-35 anni assai spesso predilige le serie internazionali di origine angloamericana.

La cosa interessante è che le serie cable (e quelle di Netflix e Amazon, a cui accenneremo più avanti) si basano su un modello di business che è profondamente diverso da quello delle serie televisive per canali generalisti. Se queste ultime devono puntare necessariamente a un pubblico il più ampio possibile per generare ricavi ai canali che le mettono in onda, grazie alle entrate degli spot pubblicitari che le inframmezzano, le serie che vanno sui canali a pagamento di per sé non generano utili sul numero di spettatori che le guardano in quel momento, ma sulla loro “immagine indiretta”, sulla loro “importanza percepita”, che fa sì che uno spettatore si convinca a fare (o rinnovare) l’abbonamento per quel canale a pagamento perché non vuole essere “fuori dal giro”, non vuole rischiare di perdere quella serie televisiva di cui tutti (almeno apparentemente) parlano, magari perché se ne parla molto sui giornali.

Se quindi io produco una serie per CBS (o NBC, Fox ABC) in America oppure per Raiuno o Canale 5 in Italia devo cercare di far sì che essa sia vista dal maggior numero possibile di persone, per rendere contenti i canali che me la commissionano e la mandano in onda. Se lavoro per HBO (o AMC, Showtime, Starz, ecc.) in America oppure per Sky in Italia è soprattutto importante che della serie se ne parli e che essa abbia un “percepito” tale da essere considerata un valore importante da chi dovrà fra qualche mese rinnovare l’abbonamento. Ecco perché fin dalla sua nascita negli anni ’70, HBO – e con lei tutte le altre reti analoghe, come fa oggi Sky in Italia- ha un investimento pubblicitario e di pubbliche relazioni sul singolo prodotto incomparabilmente più grande di quello delle reti generaliste… Deve convincere tutti che quella serie è “fondamentale” e non si può perderla. Che poi la vedano in tanti o in pochi è (relativamente) secondario. Come è noto, dopo un ottimo ascolto di quasi un milione nella serata iniziale The Young Pope è crollato dimezzando gli ascolti della prima visione a partire dalla seconda settimana attestandosi a circa 500.000 spettatori medi nella prima visione delle successive puntate. Ma questo non è detto che sia un grave problema per una serie il cui primo obiettivo era costruire o rafforzare “notorietà” alla rete che la manda in onda.

Le conseguenze di questo –sempre relativo, ma significativo- sganciamento delle produzioni di serie tv dalla necessità di ottenere ascolti alti sono state importantissime anche in termini di contenuti. Hanno in qualche modo permesso agli autori e produttori di andare su terreni fortemente trasgressivi (cosa che di solito –a dispetto delle leggende- non garantisce ascolti alti e costanti in tv) e anche di assestarsi su terreni che sono culturalmente molto polarizzati, in temi come quello della dissoluzione della famiglia, della critica a ogni forma di religione, della ideologia che oggi viene chiamata di “gender”. Hanno consentito inoltre di costruire personaggi molto dark, non solo e non tanto con incursioni nel mondo del crimine, ma soprattutto con storie amare e con un senso profondo di radicale insoddisfazione esistenziale, che esprimono una visione cupa e pessimista, radicalmente negativa, dell’esistenza. Il tutto comunque con una notevole qualità tecnica di scrittura e realizzativa (e ovviamente anche con significative differenze di sensibilità culturale, che qui per brevità siamo costretti a non illustrare).

Quelle dei canali tematici a pagamento sono quindi le serie più trasgressive e amare, ma anche quelle di cui si parla di più, quelle che – forse per investimento sulla comunicazione, forse anche per un relais a volte un po’ infantile dei media, in primis i giornali- fanno “opinione” influendo sul dibattito pubblico, su altri media, formando il gusto di tanti altri operatori della comunicazione e orientando fortemente la cultura. Parliamo di serie anche molto diverse fra loro comeMad Men,Boardwalk Empire, The L Word, Masters of Sex, The Wire, Girls, Transparent…

A proposito dell’orientamento ideologico-valoriale delle serie americane, un libro uscito qualche anno fa (e di cui abbiamo dato ampiamente conto nel nostro Creatività al potere, Lindau 2013), scritto da un giovane intellettuale americano, Ben Shapiro, e significativamente intitolato Primetime Propaganda, dopo un ampio giro di interviste a sceneggiatori, produttori, showrunner concludeva in modo molto netto che in moltissimi casi a guidare le scelte di questi grandi professionisti non era in primis il desiderio di avere grande successo o di fare molti soldi, ma quello di portare avanti battaglie culturali che essi ritenevano importanti. Esemplare l’intervista alla showrunner di Friends (uno dei prodotti più popolari dello scorso decennio), Martha Kaufmann, che spiegava come lei considerava un grande punto di orgoglio aver messo in scena un matrimonio lesbico e averlo fatto interpretare da un’attivista di questo movimento: si trattava di arrivare a ottenere la parità legislativa che poi effettivamente è stata ottenuta.

Le serie prodotte dalle aziende che distribuiscono direttamente via internet (Netflix e Amazon) hanno seguito la linea fortemente polarizzata e fortemente trasgressiva delle reti cable. In più c’è il fatto che non comunicano dati sul numero di spettatori e quindi non si sa il successo che le loro serie (su tutte House of Cards per Netflix, serie di cui si è molto parlato in questi anni) hanno presso il pubblico, ma certamente stanno in qualche modo facendo scuola fra i professionisti dei media.

Se nel cinema hollywoodiano (ma qui il discorso sarebbe lungo) c’è ancora spazio per un ampio pluralismo di modi di vedere il mondo e ci sono ancora ogni anno un buon numero di film che hanno una profonda connessione con le radici ebraico-cristiane della cultura europea e americana, in televisione invece le serie internazionali che hanno questa connotazione valoriale sono davvero poche. Si è creata, per motivi storici che non abbiamo lo spazio per raccontare, una fortissima polarizzazione culturale: è davvero una élite di autori e produttori quantitativamente assai ridotta (molti di loro passano da una serie all’altra) che sta diffondendo il proprio punto di vista sul mondo: non a caso in America la questione della polarizzazione culturale dei media è un tema che periodicamente riaccende dibattiti molto accesi,, come si è visto nella recente campagna presidenziale.

Una delle poche serie davvero “diverse” da questo mainstream mediale, ed è un caso di straordinario successo in moltissimi Paesi del mondo (un po’ meno, per contingenze varie, in Italia), è stata Downton Abbey, prodotta in Inghilterra e frutto principalmente del lavoro di Julian Fellowes, il suo sceneggiatore-creatore. I grandissimi risultati di audience che ha avuto in molti Paesi del mondo mostrano che di spazio per raccontare in modo diverso e con punti di vista diversi ce ne sarebbe… Anche in questo grande mercato mondiale.

Nota: articolo precedentemente uscito su Avvenire in data 17/12/2016 e qui pubblicato di nuovo per gentile concessione dell’autore.

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