Adolescenza perduta nella trappola dei “Mi piace”. Il «mi piace» e il «non mi piace» dei social network come nuovo confine etico del mondo.
L’anno scorso, un’amica di mia nipote, una ragazza bella, solare, con una
famiglia unita alle spalle, ha preso la pistola del padre e si è ammazzata,
lasciando dietro di sé poche parole. Giorni vuoti e senza significato.
Sempre più spesso le cronache ci riportano atti di autodistruzione da parte
di adolescenti, come se un’invisibile marea avesse trascinato con sé la
loro energia vitale. Al di là della cronaca, che può essere falsata
dall’obbligo del sensazionalismo, chiunque abbia a che fare con dei
ragazzi, sa che la cifra fondamentale di molti di loro è la disperazione.
Una disperazione ovattata, rassegnata, che conduce a una vita di
autodistruttiva sregolatezza, quando non di apatia patologica. Ragazzi che,
da un giorno all’altro, decidono di abbandonare la scuola senza una vera
ragione, rinchiudendosi nelle loro camere a vivere una vita puramente
virtuale – sindrome già diffusa nel decennio scorso in Giappone – sono
ormai una realtà diffusa, così come lo è il ricorso a un continuo stato di
stordimento, vuoi per l’eccesso di alcol, vuoi per l’uso protratto di
droghe. La sensazione che si prova, frequentandoli, è quella che cavalchino
un’onda che li mantiene sempre sulla superficie della realtà. L’irrompere
del mondo digitale, con la conseguente smaterializzazione dei sensi reali e
il predominio del chiacchiericcio, lo sgretolarsi di quello che fino a
trent’anni fa erano delle realtà educative – scuola, chiesa, famiglia – e
l’imporsi di un mondo ormai drammaticamente femminilizzato – privo cioè di
un qualsiasi principio di autorità, che li aiuti a portare lo sguardo al di
là dell’orizzonte ovattato del sentimentalismo – rendono sempre più
difficile immaginare una qualche forma di intervento.
Eppure, da qualche parte bisogna pure incominciare, perché lo strazio di
queste adolescenze non più in grado di impiegare la magnifica energia della
loro età non è più tollerabile. Innanzi tutto, dato che non siamo monadi
senza porte e senza finestre, ma veniamo al mondo in un contesto sociale –
del quale un giorno verremo chiamati a fare attivamente parte – chiediamoci
cosa offre la nostra società a chi viene al mondo. Il primo ambiente
sociale ad accogliere i bambini sono i giardinetti, che spesso sono
sporchi, trasandati, ricoperti di scritte. Poi c’è la scuola. La maggior
parte degli edifici scolastici sono in uno stato di assoluto degrado. E non
si parla di lavagne elettroniche, ma semplicemente di pareti, di banchi e
di gabinetti. E il degrado, purtroppo, non è soltanto quello degli
ambienti, ma riguarda anche la didattica. Insegnanti sottopagati,
sottoposti alla continua tirannia della precarietà, ridotti all’impotenza
educativa per la continua ingerenza dei genitori, avviliti nel loro
desiderio di essere parte fondamentale di un processo educativo necessario
alla persona e alla società.
Una mia nipote ha lasciato il liceo italiano per trasferirsi all’estero
dove frequenta una scuola tedesca. La prima cosa che mi ha detto è stata:
«Zia, è incredibile. Qui ti rispettano. Ti spingono sempre a dare il meglio
di te, così noi studenti facciamo a gara per essere migliori. Ma quando
torno in Italia vedo che i miei ex compagni fanno invece a gara per essere
i peggiori. Chi riesce a prendere il voto più basso viene portato in
trionfo dai suoi amici». Dunque, un passo per innestare un vero cambiamento
sarebbe quello di smettere di considerare la scuola unicamente un luogo di
contrattazioni elettorali e sindacali, ponendosi invece come primo
obiettivo la ricostruzione di un tessuto sociale educativo basato sul
rispetto intergenerazionale e sulla riqualificazione edilizia, restituendo
autorevolezza agli insegnanti e limitando fortemente le continue e
deleterie intrusioni delle famiglie nella scuola. Incoraggiare tutti a fare
il meglio è l’unica base su cui costruire una società civile, degna di
questo nome. Giardinetti latrina e scuole conseguenti aiutano a produrre
quello che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi. Una società che sta
scendendo sempre più i gradini dell’inciviltà, del cinismo, dell’ignoranza
e dell’arroganza ottusa. Certo, ci sono i media che amplificano tutto, ci
sono i tempi che cambiano vertiginosamente ma, sotto tutto questo, esiste
sempre l’essere umano. E l’essere umano, nonostante i continui tentativi di
manipolazione a cui assistiamo, possiede una sua natura specifica. Ed è
proprio su questa natura che dobbiamo intervenire, se vogliamo cercare di
cambiare davvero qualcosa.
«Ma lei davvero crede ancora nell’esistenza del bene e del male?» mi chiese
un giornalista, una quindicina di anni fa. La domanda mi sconvolse, perché
fino a quel momento avevo sempre considerato l’esistenza di questi due poli
come un lapalissiano fondamento della realtà. Invece improvvisamente
scoprivo che non era così, che quello che io credevo fondamento, non era
altro che il residuo di una credenza arcaica. Nel mondo esaltato dai media,
infatti, il bene e il male non hanno più alcun senso di esistere. Il «mi
piace» e il «non mi piace» sono diventati il confine etico del mondo. Ma
l’essere umano trova veramente la sua realizzazione nel «mi piace» o «non
mi piace»? O si tratta piuttosto di una pietosa anestesia per impedire di
alzare lo sguardo e correre il rischio di farsi domande più grandi?
Aver cancellato la linea di demarcazione tra il bene e il male,
trasformando quest’imprescindibile scelta in qualcosa di voluttuosamente
relativo, ha contribuito fortemente a trascinare le giovani generazioni in
questo stato di desolante degrado, privo di orizzonti. L’essere umano, per
diventare veramente tale, ha bisogno di sfide. E la prima sfida è quella di
sapere cos’è il giusto e cos’è l’ingiusto, per poter poi scegliere da che
parte schierarsi.
L’altro asse cartesiano di riferimento è quello del tempo. Senza la
consapevolezza che il vivere, prima di ogni altra cosa, è confronto con il
termine – cioè con l’oscurità che ci attende tutti – è impossibile
costruire un reale cammino di crescita. Invecchiare vuol dire crescere in
saggezza, e in questa crescita dovrebbe essere racchiuso il senso vero di
ogni vita. Se il tempo è scandito soltanto dal soggiacere agli impulsi e
dall’inseguire i consumi, non c’è alcuna speranza di poter aiutare i
ragazzi a uscire dalla circolarità banalizzante che questa società ci
impone.
Da che mondo è mondo, il senso della vita degli esseri umani è sempre stato
compreso tra queste due coordinate. Il tempo che mi è concesso e la sfida
di scegliere tra il bene e il male. Altrimenti si finisce per vagare
nell’indistinto. E l’indistinto è qualcosa che genera angoscia profonda
nelle persone. Per questo, per uscire dall’opacità tristemente distruttiva
che li sta fagocitando, i nostri ragazzi hanno bisogno di adulti capaci di
offrire loro delle sfide in questo campo, sottraendoli alla palude del «mi
piace». Hanno bisogno che si riprenda a parlare loro del bene e del male e
della coscienza – che è il luogo in cui questo discernimento avviene; un
bene e un male non relativi, ma assoluti, il cui primo universale
comandamento è «Non fare agli altri quello che non vuoi venga fatto a te
stesso». Hanno bisogno soprattutto di uno Stato e di una politica che creda
davvero nel loro futuro e si impegni, da subito, nelle cose più semplici, a
partire dai giardinetti.
Nota: pubblicato per gentile concessione dell’autrice.