mercoledì, Settembre 27 2023


Intervista alla psichiatra, neuropsichiatra infantile e
psicoanalista Caterina Saccà


Che sia la tastiera di un personal computer, quella di un videogioco o
piuttosto di un cellulare, poco cambia: l’importante è essere sempre
connessi.

È la generazione dei “nativi digitali”, bambini e adolescenti nati al
tempo di Internet, a partire dalla prima metà degli anni ’90, e
cresciuti in ambienti dominati dalle nuove tecnologie, con le quali
hanno imparato ad interagire con naturale immediatezza fin dalla prima
infanzia, sviluppando originali stili relazionali e cognitivi.
Tecnoagers che sanno tutto di smartphone, social network e Playstation,
dispositivi e applicazioni entrati nel lessico e nella pratica
quotidiana anche di quanti, “immigrati digitali”, sono cresciuti
nell’universo analogico tradizionale a pane, radio-tv e giornale,
avvicinandosi solo poi, e solo parzialmente, a un mondo rivoluzionario
che resta per loro in parte sconosciuto. Quali gli effetti dei nuovi
media sui ragazzi? Quali opportunità e rischi per loro? Cosa fare in
caso di comportamenti disfunzionali? Quale approccio educativo
adottare? Abbiamo intervistato su questi temi la psichiatra,
neuropsichiatra infantile e psicoanalista Caterina Saccà, esperta di
orientamento familiare in particolare per l’età adolescenziale.


Tecnofili o tecnofobi, ottimisti o pessimisti: l’invasione dei
media elettronici negli ambienti domestici e di lavoro suscita
allarmi e scatena polemiche. Lei tende a collocarsi tra gli
apocalittici o gli integrati?

«Il diffondersi di questi mezzi desta non pochi timori, anche legittimi
e fondati, per alcune loro proprietà, e tuttavia ricordo innanzitutto a
me stessa che il “nuovo” che avanza è da sempre fonte di diffidenza
oltre che di fascinazione. Si pensi ai timori per gli effetti della
scrittura espressi da Platone nel Fedro e prima ancora da
Socrate».

Interessante, ma si sbilanci anche un po’…

«Più che schierarmi cerco di esercitare buon senso e misura. Sono
persuasa che ogni mezzo tecnologico in sé non sia né buono né cattivo e
che tutto dipenda dall’uso che se ne fa, e penso anche che riconoscere
questo sia un buon punto di partenza per affrontare criticità in alcuni
casi anche evidenti e gravi. Detto questo, i media digitali hanno
potenzialità indubbiamente uniche che meritano particolare
considerazione».


A questo proposito, recenti studi nel campo delle neuroscienze
evidenziano che l’impiego di questi dispositivi influenza
notevolmente le capacità cognitive. Cosa ci può dire al riguardo?

«Un ambiente dinamico e ricco di stimoli è particolarmente in grado di
influenzare il nostro assetto cognitivo. Oggi, grazie anche all’aiuto
delle tecniche di neuroimaging funzionale, sappiamo che in presenza di
stimoli collegati all’acquisizione di capacità si attivano nuovi
collegamenti tra le cellule nervose. Una sorte inscritta nella nostra
storia evolutiva e che si sta ripetendo anche per le reti neuronali dei
nativi digitali».


I nostri figli sono davvero così diversi da come eravamo noi alla
loro età?

«Guardi, non sappiamo che riflessi su di loro potrà avere alla lunga
l’uso crescente dei nuovi media, tuttavia siamo già in grado di
cogliere alcuni aspetti di novità. Diverse ricerche evidenziano in
questo senso precisi segnali di tendenza».

Si parla tanto di multitasking…

«La capacità di impegnarsi in più compiti contemporaneamente è
un’attitudine spiccata tra i nativi digitali, ma non è certo l’unica e
si accompagna ad altri elementi d’interesse, come la marcata
intelligenza visuo-spaziale. Per contro, i ragazzi di oggi sembrano
essere meno riflessivi, portati a una più superficiale capacità di
rielaborazione cognitiva e più esposti a deficit di attenzione e
iperattività, con eccesso di impulsività e minore capacità di
concentrazione».


Alcuni neurobiologi mettono tutto questo in relazione con la
crescente disaffezione per la lettura tradizionale, che esporrebbe
i ragazzi a sviluppare meno attitudine simbolica e maggiore
propensione percettiva, a differenza di quanto è accaduto a noi che
siamo cresciuti a pane e libri, sviluppando buone capacità di
immaginazione…

«C’è del vero, in quanto ciò che si sta osservando suggerisce che il
rischio esiste. Tuttavia, è opportuno sottolineare che si tratta di
fenomeni in divenire, che necessitano di ulteriori approfondimenti. Se
è vero che la lettura lineare tradizionale, richiedendo
approfondimento, è una pratica che stimola la capacità di riflessione,
è altrettanto vero che con le modalità ipertestuali di conoscenza, più
veloci e seducenti, siamo entrati in una fase intensamente cognitiva.
Educhiamo dunque i ragazzi a coltivare sia le une che le altre e li
aiuteremo a conservare e sviluppare importanti abilità cognitive».


Cattiva maestra o scatola magica, la televisione, grazie anche al
digitale, continua ad essere un mezzo centrale nella nostra vita, a
volte fin troppo se si pensa ai ragazzi. Che consigli dare a
genitori ed educatori?

«Intanto di non demonizzarla, perché non servirebbe e perché resta un
utile mezzo di informazione e di intrattenimento. Aiutiamo piuttosto i
nostri figli a diventare spettatori smaliziati e competenti, affinando
il loro spirito critico mediante forme di accompagnamento della
fruizione. Riduciamo l’eccessivo numero di schermi presenti nelle
nostre case, riportando la TV in salotto così da sottrarla a un uso
privato spesso improprio. E individuiamo, infine, tempi e modi per
evitare abusi da sovraesposizione che, soprattutto in età pediatrica,
espongono a problemi di salute di lungo periodo come l’obesità, esito
sovente di errati stili alimentari indotti dalla pubblicità».


Un approccio pedagogico che non deve ridursi, tuttavia, a semplice
esercizio di controllo…

«Senz’altro. È molto importante promuovere la crescita autonoma e
responsabile dei ragazzi, favorendo forme di dialogo e condivisione. Ma
mi faccia dire anche un’altra cosa: prestiamo più attenzione ai nostri
figli. Svogliatezza, stati d’ansia e d’irritabilità, disturbi del
sonno, sono segnali che devono farci pensare e magari spingerci a
chiedere consiglio a uno specialista, se accompagnati da drastica
riduzione delle attività sociali e di divertimento alternativo».


Il salto dal telecomando TV agli schermi multi-touch degli
smartphone e a quelli altrettanto seducenti di PC e videogiochi è
brevissimo: giornali e TG dedicano sempre più spazio alla
dipendenza dai media elettronici. Sono davvero così temibili queste
tecnologie?

«Si tratta di dispositivi che hanno modificato le pratiche quotidiane
di tutti noi, accelerando e arricchendo stili di relazione e di
comunicazione. Attivare un profilo sui social network, usare sms,
pubblicare video su YouTube, elaborare contenuti nei blog, può essere
un modo creativo di rapportarsi alla realtà e di interagire con gli
altri».

Questo è vero soprattutto per i giovani…

«Beh, certo. Loro sono portati naturalmente a usare questi mezzi per
consolidare e ampliare il proprio orizzonte affettivo, sperimentando un
senso ubiquitario e immediato del luogo e della relazione e insieme una
molteplicità del proprio Sé, funzionale a una costruzione e gestione
dell’identità più libera, perché meno condizionata dagli stereotipi
sociali. C’è, però,da considerare anche l’altra faccia della
medaglia…».


Appunto, quella, per così dire, non proprio tranquillizzante…

«Esattamente. Nella pratica clinica capita sempre più spesso
d’incontrare ragazzi che incorrono in crisi di panico se privi del loro
telefonino o che sviluppano marcata aggressività e irrequietezza
psicomotoria in assenza di risposta a un loro sms o che restano
incollati per ore allo schermo di PC e Playstation finendo per
trascurare tutto il resto. L’avvento di queste rivoluzionarie
tecnologie, nel trasformare i nostri assetti cognitivi e affettivi, ha
determinato anche una serie di condizioni favorevoli all’emersione di
condotte problematiche e forme di dipendenza».

Si tratta di nuove malattie?

«Le dipendenze tecnologiche sono un sottogruppo delle New Addictions o
Addictions Drug-Free, dipendenze di tipo comportamentale associate a
attività socialmente accettate, oggetto di un controverso dibattito
nella comunità scientifica internazionale. Presentano quadri
sintomatologici e decorsi di malattia in parte sovrapponibili alle
forme classiche indotte da sostanze psicoattive come droga e alcool. Si
caratterizzano, inoltre, per un’eziologia multifattoriale, avendo
all’origine elementi di natura socioculturale, ma anche neurobiologica,
psicologica e psichiatrica».


La frequenza e l’intensità con le quali usiamo questi mezzi farebbe
pensare che siamo un po’ tutti dipendenti…

«Le cose non stanno proprio così. L’inquadramento diagnostico non è
agevole, sia perché il fenomeno additivo è assai complesso sia perché
non esistono allo stato adeguati strumenti di valutazione e una
nosografia ufficiale, cosa che si spera di risolvere fin dalla prossima
edizione del DSM, grazie anche al prezioso apporto di colleghi italiani
che da anni si occupano di questi temi, da La Barbera a Cantelmi, a
Caretti. Perché si possa parlare di dipendenza non basta che l’uso del
dispositivo sia protratto e intensivo, c’è bisogno anche di altro…».

Di cosa? Non ci tenga sulle spine…

«Volendo semplificare al massimo, diciamo che è necessario che la
condotta produca significativa compromissione della vita reale e forme
di disagio clinicamente rilevabili. L’uso del mezzo in questi
situazioni si manifesta infatti come un comportamento persistente,
ricorrente e maladattivo ed è talmente coinvolgente che il soggetto
trascura, fino a comprometterli, tutti gli altri aspetti della sua
vita, sviluppando eterogenei disturbi fisici, simili a quelli dei
tossicomani in crisi di astinenza, assieme a modificazioni dell’umore e
condizioni di ritiro sociale. Più tranquillo ora?».


Direi di sì… Ma cosa spinge a queste condotte ossessive?

«La dipendenza patologica, soprattutto in età adolescenziale, tende a
configurarsi come una difesa non adattiva, utile a evadere dai nuclei
problematici della realtà ordinaria. Le difese dissociative, se
transitorie, costituiscono una importante risorsa individuale, ma tutto
cambia se la fuga da stati di disagio e difficoltà viene reiterata in
modo eccessivo, perché spinge il soggetto a perdere il contatto vitale
con la realtà. Il fenomeno è in ogni caso estremamente complesso
proprio per via della sua natura multifattoriale».

Quali sono i principali fattori predisponenti?

«Le acquisizioni derivate da ricerca e osservazione clinica ci dicono
che all’origine del fenomeno ci sono vari elementi, non sempre
compresenti. Tratti di personalità, condizionamenti socioculturali,
quadri psicopatologici misti, sotto forma di disturbi psichiatrici e
dipendenza multipla, ma anche fattori collegati alle caratteristiche
del mezzo».

Caratteristiche del mezzo? Può farci un esempio?

«Si pensi al senso narcisistico di onnipotenza che può derivare
dall’uso, ma anche dal solo possesso del cellulare, diventato nel corso
degli anni una sorta di estensione fisica per tutti noi e per alcuni un
vero e proprio idolo tecnologico».


Cosa si può fare in termini di cura e di prevenzione generale, in
particolare per bambini e adolescenti?

«In mancanza di criteri nosografici ufficiali, si procede sulla base di
protocolli terapeutici non standardizzati con forme di intervento
basate su trattamento psicoterapico e, quando necessario,
psicofarmacologico. Per la prevenzione, senz’altro utili forme di
controllo e responsabilizzazione mirate a favorire l’uso sano e
adattivo di questi mezzi, all’insegna del senso di realtà e del limite,
e a evitare pericolose trappole come la pedofilia. Ma non
accontentiamoci: come genitori ed educatori sforziamoci anche di
sviluppare apertura mentale e competenze verso queste tecnologie, per
avvicinarci ai nostri figli con meno pregiudizi e più capacità di
decodifica dei loro vissuti esistenziali».

Previous

Penalizzati i ragazzi e le famiglie davanti al piccolo schermo

Next

Acque poco profonde. Cosa sta facendo Internet ai nostri cervelli?

Check Also