lunedì, Dicembre 9 2024

Dawn Stefanowicz, Fuori dal buio. La mia vita con un padre gay, Edizioni Ares, Milano 2012.

I fratelli, Thomas e Scott, un padre omosessuale «cresciuto in una famiglia disastrata in cui venivano violate le barriere sessuali e si verificavano rapporti incestuosi», una madre fragile e sottomessa, affetta da diabete: in Fuori dal buio. La mia vita con un padre gay (titolo originale del libro, Out from Under: The Impact of Homosexual Parenting) Dawn Stefanowicz ripercorre i travagliati anni dall’infanzia alla prima giovinezza, in un coraggioso viaggio a ritroso nei bui meandri della memoria, alla ricerca di particolari da raccontare e da raccontarsi senza censure, in una narrazione schietta – perfino cruda e scabrosa in taluni passaggi – che si propone, al tempo stesso, come una storia di vita da condividere fino in fondo «in modo che il lettore possa facilmente comprendere gli effetti dell’influenza che i genitori e la famiglia hanno sui bambini», ma anche come una rielaborazione catartica, di grande valore psicoanalitico, capace di far emergere parole di perdono e di speranza anche là dove più laceranti affiorano le conseguenze traumatiche dell’esperienza. La piccola Cynthia Dawn – questo è il suo nome completo – cresce nella Toronto degli anni Sessanta in una condizione di grave disagio familiare e personale in gran parte volutamente ignorata dal mondo esterno degli adulti, a cominciare da quello dei suoi insegnanti.

Tradita affettivamente da un padre assente, alla continua ricerca di relazioni gay da intrattenere con partner domestici e occasionali, e non adeguatamente sostenuta da una madre bisognosa a sua volta di aiuto, entra presto in una spirale di confusione e vergogna alimentata dall’esposizione diretta e precoce a pratiche di natura esplicitamente sessuale.

Uno stato di annichilimento della personalità e della dignità umana che si rinforza drammaticamente negli anni magmatici e tempestosi dell’adolescenza e che pregiudica sensibilmente gli stessi esordi giovanili, con l’acuirsi del quadro depressivo generale, particolarmente segnato dalla deflessione del tono dell’umore e dall’esplosione di tutta una serie di fattori predittori di rischio suicidario.

Anni di psicoanalisi e la profonda fede in Dio hanno consentito a Dawn di rappacificarsi in età adulta con questo passato ingombrante e traumatico, pesantemente contrassegnato da umiliazioni, inganni e vessazioni, aiutandola finalmente a fare piena chiarezza dentro di sé. E tuttavia, solo con la morte del padre – sconfitto dall’AIDS come molti dei suoi partner sessuali – e successivamente della madre, questa donna, divenuta nel frattempo moglie e mamma di un maschietto e una femminuccia, ha trovato il coraggio di rendere pubblica la sua terribile esperienza, allo scopo di «mostrare a tutti quanto le strutture parentali e famigliari possano incidere negativamente sullo sviluppo dei bambini». Più che un obiettivo, una vera e propria missione per l’ormai cinquantenne canadese, impegnata in giro per il mondo a testimoniare le ragioni del suo libro, in una battaglia a favore del benessere dei figli e dell’importanza della famiglia– istituzione naturale fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna – e contro la legalizzazione delle adozioni e nozze gay.

Out from Under è un libro destinato a far parlare di sé, e non solo per la dolorosa storia personale di Dawn Stefanowicz. La possibilità di definire la genitorialità oltre i termini biologici – ed in questo quadro ragionare sui diritti delle persone omosessuali in materia di matrimonio e adozione – è un tema di stretta attualità che c’interroga nel profondo, sia sul piano morale che socioculturale, e che c’impegna ad un dibattito comunitario serio, foriero di leggi capaci innanzitutto di rispettare il diritto di ogni bambino di crescere e di essere educato nelle migliori condizioni possibili. E che in questa direzione la famiglia svolga un’insostituibile funzione non ce lo dice solo la Chiesa, ma anche recenti studi pubblicati sulla rivista Social Science Research, ultimi di un filone scientifico ricco di spunti di interesse.

Qualificare sbrigativamente come omofobe, o come fuorvianti e scorrette, le argomentazioni a sostegno della eterogenitorialità, oltre ad essere riduttivo, non apporta significativi elementi di crescita e di novità ad un dibattito pubblico destinato, in mancanza di un cambiamento di rotta, a scivolare nel pantano delle sterili schermaglie ideologiche. Tra l’altro, una recente inchiesta realizzata nel Regno Unito dall’agenzia ComRes per conto di Catholic Voices – pubblicata sul famoso quotidiano inglese Daily Telegraph e ripresa in un blog del quotidiano La Stampa – mostra come tra gli stessi gay e transgender siano in tanti a non considerare il matrimonio omosessuale una priorità.

Alla vigilia, dunque, di scelte destinate inevitabilmente a rinfocolare le polemiche – su tutte, le confermate aperture del governo francese in materia di diritto al matrimonio e all’adozione delle coppie omosessuali –, ben vengano anche testimonianze forti come quella di Dawn Stefanowicz, capaci di fornire concreti elementi di riflessione sul tema della identità e responsabilità genitoriale della famiglia ed in grado, almeno per una volta, di riportare tutti con i piedi per terra (*) Caterina Saccà neuropsichiatra infantile

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