lunedì, Dicembre 9 2024

Intervista alla psichiatra, neuropsichiatra infantile e psicoanalista Caterina Saccà

Che sia la tastiera di un personal computer, quella di un videogioco o piuttosto di un cellulare, poco cambia: l’importante è essere sempre connessi.

È la generazione dei “nativi digitali”, bambini e adolescenti nati al tempo di Internet, a partire dalla prima metà degli anni ’90, e cresciuti in ambienti dominati dalle nuove tecnologie, con le quali hanno imparato ad interagire con naturale immediatezza fin dalla prima infanzia, sviluppando originali stili relazionali e cognitivi. Tecnoagers che sanno tutto di smartphone, social network e Playstation, dispositivi e applicazioni entrati nel lessico e nella pratica quotidiana anche di quanti, “immigrati digitali”, sono cresciuti nell’universo analogico tradizionale a pane, radio-tv e giornale, avvicinandosi solo poi, e solo parzialmente, a un mondo rivoluzionario che resta per loro in parte sconosciuto. Quali gli effetti dei nuovi media sui ragazzi? Quali opportunità e rischi per loro? Cosa fare in caso di comportamenti disfunzionali? Quale approccio educativo adottare? Abbiamo intervistato su questi temi la psichiatra, neuropsichiatra infantile e psicoanalista Caterina Saccà, esperta di orientamento familiare in particolare per l’età adolescenziale.

Tecnofili o tecnofobi, ottimisti o pessimisti: l’invasione dei media elettronici negli ambienti domestici e di lavoro suscita allarmi e scatena polemiche. Lei tende a collocarsi tra gli apocalittici o gli integrati?

«Il diffondersi di questi mezzi desta non pochi timori, anche legittimi e fondati, per alcune loro proprietà, e tuttavia ricordo innanzitutto a me stessa che il “nuovo” che avanza è da sempre fonte di diffidenza oltre che di fascinazione. Si pensi ai timori per gli effetti della scrittura espressi da Platone nel Fedro e prima ancora da Socrate».

Interessante, ma si sbilanci anche un po’…

«Più che schierarmi cerco di esercitare buon senso e misura. Sono persuasa che ogni mezzo tecnologico in sé non sia né buono né cattivo e che tutto dipenda dall’uso che se ne fa, e penso anche che riconoscere questo sia un buon punto di partenza per affrontare criticità in alcuni casi anche evidenti e gravi. Detto questo, i media digitali hanno potenzialità indubbiamente uniche che meritano particolare considerazione».

A questo proposito, recenti studi nel campo delle neuroscienze evidenziano che l’impiego di questi dispositivi influenza notevolmente le capacità cognitive. Cosa ci può dire al riguardo?

«Un ambiente dinamico e ricco di stimoli è particolarmente in grado di influenzare il nostro assetto cognitivo. Oggi, grazie anche all’aiuto delle tecniche di neuroimaging funzionale, sappiamo che in presenza di stimoli collegati all’acquisizione di capacità si attivano nuovi collegamenti tra le cellule nervose. Una sorte inscritta nella nostra storia evolutiva e che si sta ripetendo anche per le reti neuronali dei nativi digitali».

I nostri figli sono davvero così diversi da come eravamo noi alla loro età?

«Guardi, non sappiamo che riflessi su di loro potrà avere alla lunga l’uso crescente dei nuovi media, tuttavia siamo già in grado di cogliere alcuni aspetti di novità. Diverse ricerche evidenziano in questo senso precisi segnali di tendenza».

Si parla tanto di multitasking…

«La capacità di impegnarsi in più compiti contemporaneamente è un’attitudine spiccata tra i nativi digitali, ma non è certo l’unica e si accompagna ad altri elementi d’interesse, come la marcata intelligenza visuo-spaziale. Per contro, i ragazzi di oggi sembrano essere meno riflessivi, portati a una più superficiale capacità di rielaborazione cognitiva e più esposti a deficit di attenzione e iperattività, con eccesso di impulsività e minore capacità di concentrazione».

Alcuni neurobiologi mettono tutto questo in relazione con la crescente disaffezione per la lettura tradizionale, che esporrebbe i ragazzi a sviluppare meno attitudine simbolica e maggiore propensione percettiva, a differenza di quanto è accaduto a noi che siamo cresciuti a pane e libri, sviluppando buone capacità di immaginazione…

«C’è del vero, in quanto ciò che si sta osservando suggerisce che il rischio esiste. Tuttavia, è opportuno sottolineare che si tratta di fenomeni in divenire, che necessitano di ulteriori approfondimenti. Se è vero che la lettura lineare tradizionale, richiedendo approfondimento, è una pratica che stimola la capacità di riflessione, è altrettanto vero che con le modalità ipertestuali di conoscenza, più veloci e seducenti, siamo entrati in una fase intensamente cognitiva. Educhiamo dunque i ragazzi a coltivare sia le une che le altre e li aiuteremo a conservare e sviluppare importanti abilità cognitive».

Cattiva maestra o scatola magica, la televisione, grazie anche al digitale, continua ad essere un mezzo centrale nella nostra vita, a volte fin troppo se si pensa ai ragazzi. Che consigli dare a genitori ed educatori?

«Intanto di non demonizzarla, perché non servirebbe e perché resta un utile mezzo di informazione e di intrattenimento. Aiutiamo piuttosto i nostri figli a diventare spettatori smaliziati e competenti, affinando il loro spirito critico mediante forme di accompagnamento della fruizione. Riduciamo l’eccessivo numero di schermi presenti nelle nostre case, riportando la TV in salotto così da sottrarla a un uso privato spesso improprio. E individuiamo, infine, tempi e modi per evitare abusi da sovraesposizione che, soprattutto in età pediatrica, espongono a problemi di salute di lungo periodo come l’obesità, esito sovente di errati stili alimentari indotti dalla pubblicità».

Un approccio pedagogico che non deve ridursi, tuttavia, a semplice esercizio di controllo…

«Senz’altro. È molto importante promuovere la crescita autonoma e responsabile dei ragazzi, favorendo forme di dialogo e condivisione. Ma mi faccia dire anche un’altra cosa: prestiamo più attenzione ai nostri figli. Svogliatezza, stati d’ansia e d’irritabilità, disturbi del sonno, sono segnali che devono farci pensare e magari spingerci a chiedere consiglio a uno specialista, se accompagnati da drastica riduzione delle attività sociali e di divertimento alternativo».

Il salto dal telecomando TV agli schermi multi-touch degli smartphone e a quelli altrettanto seducenti di PC e videogiochi è brevissimo: giornali e TG dedicano sempre più spazio alla dipendenza dai media elettronici. Sono davvero così temibili queste tecnologie?

«Si tratta di dispositivi che hanno modificato le pratiche quotidiane di tutti noi, accelerando e arricchendo stili di relazione e di comunicazione. Attivare un profilo sui social network, usare sms, pubblicare video su YouTube, elaborare contenuti nei blog, può essere un modo creativo di rapportarsi alla realtà e di interagire con gli altri».

Questo è vero soprattutto per i giovani…

«Beh, certo. Loro sono portati naturalmente a usare questi mezzi per consolidare e ampliare il proprio orizzonte affettivo, sperimentando un senso ubiquitario e immediato del luogo e della relazione e insieme una molteplicità del proprio Sé, funzionale a una costruzione e gestione dell’identità più libera, perché meno condizionata dagli stereotipi sociali. C’è, però,da considerare anche l’altra faccia della medaglia…».

Appunto, quella, per così dire, non proprio tranquillizzante…

«Esattamente. Nella pratica clinica capita sempre più spesso d’incontrare ragazzi che incorrono in crisi di panico se privi del loro telefonino o che sviluppano marcata aggressività e irrequietezza psicomotoria in assenza di risposta a un loro sms o che restano incollati per ore allo schermo di PC e Playstation finendo per trascurare tutto il resto. L’avvento di queste rivoluzionarie tecnologie, nel trasformare i nostri assetti cognitivi e affettivi, ha determinato anche una serie di condizioni favorevoli all’emersione di condotte problematiche e forme di dipendenza».

Si tratta di nuove malattie?

«Le dipendenze tecnologiche sono un sottogruppo delle New Addictions o Addictions Drug-Free, dipendenze di tipo comportamentale associate a attività socialmente accettate, oggetto di un controverso dibattito nella comunità scientifica internazionale. Presentano quadri sintomatologici e decorsi di malattia in parte sovrapponibili alle forme classiche indotte da sostanze psicoattive come droga e alcool. Si caratterizzano, inoltre, per un’eziologia multifattoriale, avendo all’origine elementi di natura socioculturale, ma anche neurobiologica, psicologica e psichiatrica».

La frequenza e l’intensità con le quali usiamo questi mezzi farebbe pensare che siamo un po’ tutti dipendenti…

«Le cose non stanno proprio così. L’inquadramento diagnostico non è agevole, sia perché il fenomeno additivo è assai complesso sia perché non esistono allo stato adeguati strumenti di valutazione e una nosografia ufficiale, cosa che si spera di risolvere fin dalla prossima edizione del DSM, grazie anche al prezioso apporto di colleghi italiani che da anni si occupano di questi temi, da La Barbera a Cantelmi, a Caretti. Perché si possa parlare di dipendenza non basta che l’uso del dispositivo sia protratto e intensivo, c’è bisogno anche di altro…».

Di cosa? Non ci tenga sulle spine…

«Volendo semplificare al massimo, diciamo che è necessario che la condotta produca significativa compromissione della vita reale e forme di disagio clinicamente rilevabili. L’uso del mezzo in questi situazioni si manifesta infatti come un comportamento persistente, ricorrente e maladattivo ed è talmente coinvolgente che il soggetto trascura, fino a comprometterli, tutti gli altri aspetti della sua vita, sviluppando eterogenei disturbi fisici, simili a quelli dei tossicomani in crisi di astinenza, assieme a modificazioni dell’umore e condizioni di ritiro sociale. Più tranquillo ora?».

Direi di sì… Ma cosa spinge a queste condotte ossessive?

«La dipendenza patologica, soprattutto in età adolescenziale, tende a configurarsi come una difesa non adattiva, utile a evadere dai nuclei problematici della realtà ordinaria. Le difese dissociative, se transitorie, costituiscono una importante risorsa individuale, ma tutto cambia se la fuga da stati di disagio e difficoltà viene reiterata in modo eccessivo, perché spinge il soggetto a perdere il contatto vitale con la realtà. Il fenomeno è in ogni caso estremamente complesso proprio per via della sua natura multifattoriale».

Quali sono i principali fattori predisponenti?

«Le acquisizioni derivate da ricerca e osservazione clinica ci dicono che all’origine del fenomeno ci sono vari elementi, non sempre compresenti. Tratti di personalità, condizionamenti socioculturali, quadri psicopatologici misti, sotto forma di disturbi psichiatrici e dipendenza multipla, ma anche fattori collegati alle caratteristiche del mezzo».

Caratteristiche del mezzo? Può farci un esempio?

«Si pensi al senso narcisistico di onnipotenza che può derivare dall’uso, ma anche dal solo possesso del cellulare, diventato nel corso degli anni una sorta di estensione fisica per tutti noi e per alcuni un vero e proprio idolo tecnologico».

Cosa si può fare in termini di cura e di prevenzione generale, in particolare per bambini e adolescenti?

«In mancanza di criteri nosografici ufficiali, si procede sulla base di protocolli terapeutici non standardizzati con forme di intervento basate su trattamento psicoterapico e, quando necessario, psicofarmacologico. Per la prevenzione, senz’altro utili forme di controllo e responsabilizzazione mirate a favorire l’uso sano e adattivo di questi mezzi, all’insegna del senso di realtà e del limite, e a evitare pericolose trappole come la pedofilia. Ma non accontentiamoci: come genitori ed educatori sforziamoci anche di sviluppare apertura mentale e competenze verso queste tecnologie, per avvicinarci ai nostri figli con meno pregiudizi e più capacità di decodifica dei loro vissuti esistenziali».

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