lunedì, Dicembre 9 2024

Come stanno cambiando i videogiochi – e noi con loro – al tempo degli smartphone e di Facebook? Cosa fare sul piano psicopedagogico per limitarne i rischi ed esaltarne le potenzialità? Ne abbiamo parlato con Maria Beatrice Toro, psicologa e psicoterapeuta esperta di età infantile e adolescenziale e di nuovi media, temi di cui si è occupata in varie pubblicazioni. Ha curato di recente Adolescenza e Adultescenza, testo di grande attualità recensito anche sul nostro sito.

Se pensate che siano solo un passatempo domestico per ragazzi asociali, solitari e sedentari, correte ad aggiornarvi. I videogiochi sono sempre di più un intrattenimento senza età e di gruppo, che non conosce limiti di tempo e di spazio, ma pure un potente strumento per acquisire e sviluppare abilità. Mezzi che costituiscono l’architrave di un approccio alla realtà – definito gamification – secondo cui modellare gli atteggiamenti e i comportamenti quotidiani sugli schemi del gioco può facilitarci la vita e renderci felici. Ma anche mezzi che, se male utilizzati, possono scatenare aggressività e dare dipendenza.

L’idea di “giochificare” la realtà per stare meglio è suggestiva. Cosa ne pensa dottoressa Toro?

«L’esplosione dei videogiochi ha favorito un’estensione dei mezzi e dei tempi del gioco e la diffusione di una modalità ludica di vivere la quotidianità. Un modo per gratificarsi, certo, ma anche per provare ad eludere l’ansia inoculata dalla precarietà del post-moderno. Si tratta, in ogni caso, di un fenomeno che ingloba anche forme di gioco più tradizionali…».

A cosa si riferisce? Ci faccia un esempio…

«Pensi a giochi di ruolo dal vivo. Pure qui il confine con la realtà tende ad essere particolarmente labile e atteggiamenti assunti nella finzione ludica – se mantenuti nella quotidianità – possono provocare un senso di de-responsabilizzazione riguardo alle proprie azioni. È chiaro, però, che in questo processo di giochificazione della realtà i media digitali rivestono un ruolo fondamentale per via della loro indiscussa capacità di rendere tutto coinvolgente e verosimile».

Un’esperienza arricchita dalla tecnologia tridimensionale, ma anche da intrecci narrativi che l’ibridazione con il cinema ha reso più avvincenti e credibili…

«La natura intrinsecamente gratificante e fortemente attrattiva del gioco è esaltata nei videogame da un iperrealismo colorato, sonoro e cinestesico capace di catturare intensamente l’utente. Sotto questo profilo, la giochificazione ha nella ricca disponibilità di giochi online e offline un effetto moltiplicatore. A partire dall’infanzia, l’attività ludica ricopre sempre più tempo e contagia spazi della vita considerati da sempre distanti dall’area del piacere: scuola, formazione, lavoro».

Mezzi straordinari in grado di modificare a fondo anche la struttura del cervello di noi adulti, «immigrati digitali»…

«A differenza di quanto accadeva in passato, lavoriamo meno con i mezzi dell’immaginazione e della logica obbligando il nostro cervello a manipolare velocemente icone e a orientarsi in un mare magnum di informazioni. Possiamo immaginare le nostre azioni quotidiane come uno sfioramento continuo di schermi interattivi: bancomat, telefoni touch-screen, tablet. Un dominio della percezione sul pensiero simbolico…».

Mi scusi, ma questo vuol dire che è cambiato il nostro modo di apprendere?

«Fino a un decennio fa per conoscere ricorrevamo ai manuali d’uso, investendo tempo e fatica mentale; oggi preferiamo procedere per tentativi, fino a indovinare i movimenti giusti. Un metodo se si vuole più economico, ma non altrettanto stimolante per le aree cerebrali deputate all’impostazione delle azioni; con riferimento, in particolare, al lobo frontale sinistro. Una sorta di regressione infantile del cervello».

Quali novità hanno introdotto i videogame nel percorso di crescita psicologico, fisico e sociale dei bambini?

«Due spunti di riflessione. Sempre più bambine danno rilievo eccessivo all’immagine, anche per via dei messaggi disfunzionali veicolati dai videogiochi. Trascorrere ore e ore a modificare radicalmente a colpi di mouse il look di bambole – che un tempo ci accontentavamo di vestire e pettinare – tende ad insinuare l’idea che un giorno si potrà fare lo stesso con il proprio corpo. Ad esempio, ingrassare e dimagrire a volontà e in un batter di ciglia. Più in generale, i bambini di oggi tendono ad interagire sempre di più a distanza, mediante personaggi virtuali. Dati psicologici davvero impressionanti e preoccupanti».

A tal proposito, studi sull’American Journal of Play e Pediatrics indicano che l’eccessiva ansia dei genitori spinge i bambini di oggi a giocare sempre di più in casa, esponendoli a rischi di depressione e addirittura di dipendenza in caso di abuso di videogiochi...

«Basta un po’ di buonsenso per comprendere che davanti ai monitor i bambini non possono fare tutte le esperienze di cui necessitano. Il tempo destrutturato da sempre offre loro la possibilità di inventare un diversivo, un gioco, un’attività motoria non preconfezionata e divertente, attivando risorse di creatività e di intelligenza che sarebbe un grave errore soffocare con il solo intrattenimento digitale…».

Il problema sta, dunque, nell’approccio…

«Guardi, i genitori di oggi sono molto affettuosi coi figli, al limite dell’intimismo, ma una vita articolata, complessa e per molti versi precaria genera in loro un tale senso di ansia da portarli a confondere la sicurezza con l’incolumità. Rinchiuderli in casa o impegnarli in attività eccessivamente organizzate e presidiate da adulti – genitori, insegnanti, allenatori o tate che siano – impedisce ai bambini di maturare la dimensione della separatezza e di misurarsi in modo spontaneo e diretto con i coetanei, apprendendo lezioni che l’elettronica, da sola, non può veicolare».

Va detto che l’industria dei videogiochi si rivela in tantissimi casi un prezioso alleato dei ragazzi, abbinando divertimento e utilità. Funky Nurse, sviluppato dal Teenage Cancer e dalla Mini clip per aiutare in modo gratuito i piccoli ammalati di cancro, è emblematico in questo senso…

«I videogiochi permettono di affrontare con efficacia temi delicati, anche di tipo sanitario, dando risposte concrete ai problemi. Nella diversabilità, ad esempio, modalità di presentazione degli stimoli didattici, costruite per superare difficoltà fisiche e cognitive, consentono a tanti bambini di ricevere una formazione adeguata ai bisogni, favorendone il fare gruppo e il sentirsi sostenuti, supportati, compresi».

Lei è esperta anche di tecno-dipendenze: pensa che la pratica dei giochi online – facilitata dai cellulari sempre più evoluti e dai social network – possa aggravare il quadro di riferimento?

«Il fenomeno va monitorato con attenzione. Piattaforme e dispositivi di nuova generazione favoriscono l’estesa diffusione di esperienze ludiche a basso impegno che consentono di giocare con minori abilità cognitive, emotive, psicomotorie. I multiplayer richiedevano in passato un notevole dispendio di energie e di capacità e questo in parte scoraggiava chi era meno abile nel gioco. Oggi giocano tutti e di continuo, ma con meno agonismo, facendo più cose contemporaneamente. E ciò li espone ad un maggior rischio di dipendenza…».

Ciò sembra valere in particolare per la pratica dei giochi d’azzardo, segnalata dall’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR in aumento tra i giovani, probabilmente anche sulla spinta delle modalità solitarie, veloci e decontestualizzate tipiche dalla Rete…

«Parliamo di una realtà diffusa, che somma ossessività a danno economico, spesso difficile da cogliere. Contare ore di connessione o quanti giochi si possiedono – i vecchi criteri per diagnosticare la tecno-dipendenza online – oggi non ha più tanto senso, visto l’uso intensivo che tutti noi facciamo dei media digitali. È più utile guardare ad altri possibili campanelli d’allarme: ad esempio, se per giocare i nostri figli trascurano i restanti aspetti della loro vita e presentano segnali di stanchezza e nervosismo assieme a una più che marcata tendenza a mentire, è molto probabile che ci sia un disturbo».

Una sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti ha stabilito che non può essere vietata la vendita ai minori di videogiochi violenti, gli stessi accusati da molti di stimolare a loro volta violenza. Non si diceva un tempo che giocare a fare la guerra fosse una sana forma di scarico dell’aggressività?

«Giocare a fare la guerra è un gioco simbolico attraverso cui i bambini mettono in scena la propria aggressività, gestendola senza restarne scossi. Esporre i minori a contenuti intrisi di sangue, violenza e sesso è invece traumatico, poiché costituisce un’esperienza critica per la loro personalità. Le scene violente entrano nella loro sfera emotiva senza essere elaborate, poiché la mente infantile non è capace di affrontare situazioni che esibiscono la morte, la sessualità esplicita, l’offesa al corpo…».

Non tutti sanno, a tal proposito, che in Europa esiste un sistema di classificazione per tutelare i minori (PEGI), le cui indicazioni sono riportate sulle etichette dei giochi. Ma ritornando alla domanda: questi mezzi possono provocare emulazione?

«Il tema è controverso. Molti studi ci dicono che il comportamento violento successivo alla fruizione di contenuti di pari tenore è spesso frutto di una desensibilizzazione emotiva legata alla sovraesposizione. A differenza di noi adulti, i ragazzi hanno scarse risorse sul terreno dell’empatia e del dolore, al punto da rimanere sorpresi dinanzi agli effetti reali del loro agire. La cronaca è piena di fatti, con protagonisti minorenni, in cui è possibile notare una qualche sovrapposizione tra piano della realtà virtuale e piano della realtà quotidiana».

Per fortuna, gli aspetti positivi non mancano. Studi suPerception e sul Personality and Social Psychology Bulletin rivelano, ad esempio, che i videogiochi strategici e d’azione facilitano lo sviluppo cognitivo e che quelli con contenuti pro-sociali aiutano a sviluppare nella realtà gli stessi modelli di comportamento…

«Se ben sfruttata, l’interattività dei giochi digitali può essere di grande aiuto. Ad esempio, per stimolare curiosità e creatività, rafforzare la memoria, pensare in maniera organizzata o mettersi nei panni degli altri. Può trarne beneficio pure l’autostima, così importante per la salute psichica. Non così le forme più solide di amicizia, per le quali resta insostituibile la condivisione faccia-a-faccia».

Dottoressa Toro, quali consigli dare in conclusione a genitori ed educatori?

«In Adolescenza e Adultescenza raccomandiamo un pieno recupero della responsabilità educativa. In concreto ciò significa, anche riguardo ai videogame, accostarsi ai ragazzi con semplicità e nel rispetto dei ruoli, mettendosi davvero in gioco e in relazione con loro, interessandosi e condividendo ciò che essi fanno e favorendo il confronto su tempi e modalità di fruizione. Con l’obiettivo finale di individuare regole certe e approcci corretti e responsabili».

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