lunedì, Ottobre 7 2024

Questo documento è una versione ampliata di un’intervista avvenuta l’11 novembre 2021, in occasione della pubblicazione della 2a edizione del libro “La Paternidad en el Pensamiento de Karol Wojtyla” dello studente universitario in comunicazione Diego García de la Garza dell’Università di Navarra.

1. cosa si intende per senso unitivo e procreativo dell’atto sessuale?

Questa stessa domanda se l’è posta, in vari testi,Karol Wojtyla, prima di essere chiamato come successore di Pietro, tra il 1950 e il 1978. In essi, ha cercato di unificare le due posizioni classiche che si riferiscono alla sessualità tra uomo e donna: da un lato, una visione “biologicista”, secondo cui il sesso trova il suo unico scopo nel generare figli; dall’altro, la concezione permissivista che vede il sesso principalmente in funzione del piacere. In entrambi i casi, il senso unitivo e procreativo del sesso si autoescludono, quando, in realtà, entrambe le finalità sono state pensate da Dio per rendere fecondi gli sposi nella loro vita coniugale e familiare. Rispetto a questo, il maschio, possibile padre, vive la sua fertilità in modo “costante”. Nel caso della donna, questa si verifica “a intermittenza”. Di per sé, questo ci dice come la sessualità umana abbia tempi e ritmi in cui ci può essere fertilità, ci può essere fecondità, ma occorre che si passi attraverso la razionalità della coppia e il dialogo tra i due. Ciò significa che l’intimità sessuale comporta la donazione del proprio essere in modo totale in momenti specifici della relazione coniugale.

2. Cosa significa “usare” l’altro a livello sessuale?

Per Wojtyla, il grande rischio della separazione tra fine unitivo e procreativo è quello di arrivare ad usare l’altro. Dottrine pragmatiche e utilitaristiche lo suggeriscono in vari modi: il primo pericolo è l’uso reciproco tra uomo e donna, che possono vedersi come “oggetti di piacere”, negando totalmente la loro fertilità; il secondo, è l’uso reciproco degli sposi come “oggetto di procreazione”, in quest’ottica la gravidanza della donna mira a mettere al mondo figli per scopi estranei (o poco chiari) all’amore coniugale.

3. Perché il matrimonio tende ad essere “procreativo”?

È qui che la paternità e la maternità acquistano la loro rilevanza e la loro forza, prima ancora che ci sia la possibilità concreta di quel novum, il bambino: la novità che viene dall’amore dei genitori. Di fronte a questa possibilità, Wojtyla avverte sulla necessità di stabilire un contesto che nella cultura occidentale abbiamo finora chiamato istituzione del matrimonio. La parola matrimonio (matris-munium) si riferisce ai doveri di una madre. Ciò implica l’esistenza di un padre che decide di assumersi la responsabilità di questo nuovo nucleo familiare-domestico, che esiste anche grazie a lui e che ora “vive” nel grembo materno. Questa custodia si chiama patrimonio e va oltre la gestione di beni materiali. Riguarda il sostegno economico, educativo e di intimità (come direbbe Rafael Alvira) che si verifica in questa specifica relazione. Forse è questo il modo più chiaro per unire la morale sessuale con la possibilità di paternità e maternità.

4. Cosa significa essere padre? Cosa significa essere madre?

La genitorialità , in senso lato, supera la realtà biologica, ma non la nega né la disprezza. È molto più dell’unione di uno spermatozoo e di un uovo che, nelle condizioni favorevoli, danno origine a un essere umano. Questa realtà naturale, innegabile in sé, è accompagnata da tutta la realtà umana che suppone uno stile di vita culturale concreto, con abitudini specifiche che promuovono il bene.

E cosa è bene? Tutto ciò che favorisce la vita. Di chi? Di coloro che si trovano nel medesimo ambiente. In questo senso, essere padre e madre di famiglia implica avere “questi figli”, che abiteranno in “questo ambiente”, nella famiglia costituita e sostenuta da noi, che siamo i loro genitori.

5. Fare famiglia implica avere figli?

Wojtyla ha riflettuto su questo tema. È vero che Dio ci ha posti in questo mondo per amare ed essere amati, e che dall’amore può avere origine la vita di un figlio. Ma insieme ad un desiderio naturale, che ha uno sfondo soprannaturale, è necessario sviluppare un contesto familiare responsabile che miri allo sviluppo permanente di quella creatura.

6. Cosa significa “contesto familiare responsabile”?

Significa farmi carico di tutto ciò che riguarda la vita di questo figlio che è mio figlio, di questa moglie, di questo marito e del fatto che siamo “vincolati” l’uno all’altra. Il concetto di matrimonio presuppone l’unione, che in un dato momento diventa evidente di fronte alla società, di fronte a Dio e di fronte agli sposi stessi al momento dell’incontro sessuale. Ma il contesto familiare responsabile implica un impegno conseguente: quello di proteggere e rendere possibile la fioritura di ogni membro della famiglia.

7. Quali sono le possibili difficoltà nel consolidare un “contesto familiare responsabile”?

Secondo Wojtyla, i giovani incontrano tre difficoltà quando considerano di formare una famiglia: 1) Entrambi i coniugi devono lavorare fuori casa. La tendenza sociale comunista degli anni ’50 non tollerava ciò che ora è anche uno dei capisaldi del femminismo: “la casalinga è una donna maltrattata”. Secondo questa idea, tutti e tutte devono lavorare perché bisogna superare la discriminazione della donna e perché è necessario per l’economia; 2) anche se entrambi i coniugi lavorano fuori casa, gli stipendi non sono alti; 3) la difficoltà di trovare un luogo dove vivere, di acquistare una casa. Un contesto familiare responsabile è legato al concetto di casa, vale a dire che l’ambiente domestico implica in qualche modo l’esistenza di una proprietà. Il mondo contemporaneo vede famiglie limitarsi a vivere in affitto in delle case o appartamenti. Ma quello “spazio” vitale non è la mia casa, è una casa che sto occupando in questo momento e l'”abitarci” per me è momentaneo, non è uno stato permanente.

8. Come possono le famiglie contemporanee far fronte alle difficoltà poste da Wojtyla?

Wojtyla individuò queste tre difficoltà nel suo ambiente giovanile, nel contesto di una società comunista. Sembra, tuttavia, che ancora oggi gli stessi problemi siano presenti nella vita delle coppie contemporanee. Perciò, le raccomandazioni del sacerdote polacco rimangono valide: vivere secondo una moralità alta. Le condizioni socio-economiche che stringono le famiglie oggi continuano a peggiorare. Eppure, non possiamo rinunciare alla lotta per cambiarle. Non possiamo abituarci – né le giovani coppie né nessun altro – a questo stile di vita che tende a precludere il matrimonio e ad avere figli. Dobbiamo dire “sì” alla vita e dobbiamo sforzarci di crescere interiormente affinché possiamo rapportarci in modo nuovo con queste condizioni socio-economiche. E gli unici a poter determinare con precisione come “scendere a compromessi” con lo stile di vita che sta facendo annegare le famiglie sono i coniugi, nessun altro. Nel dialogo tra gli sposi, si valuterà chi lavorerà, facendo cosa e come. Sarà da quel dialogo che capiranno il tipo di sacrifici da affrontare, di modo che i figli ricevano il necessario per il loro benessere.

9. La paternità e la maternità sono una vocazione?

Il termine latino vocare significa che “qualcuno” mi chiama dall’esterno. Pertanto, io mi limito, per così dire, a rispondere. Non posso scegliere di farmi chiamare da una voce esterna (o interiore). Devo semplicemente identificare la chiamata e nella libertà decidere se rispondere o meno. Siamo persone, siamo esseri umani con un’anima e un corpo (come ci dice Mikel Santamaría). C’è un’unità tra queste due dimensioni, tra l’esistenza materiale e quella dell’io che informa la realtà concreta della mia persona ed “è” di fronte all’Essere Assoluto: Dio. Solo davanti a Dio l’uomo riconosce pienamente i propri limiti. Questi si manifestano nel modo di vivere, nel modo di essere e nel modo di agire di fronte agli altri. Quindi, rispondere alla vita: questo significa essere un papà o una mamma ed è qualcosa che coinvolge in modo assoluto. Cioè, significa riconoscere che un tempo sono stato chiamato alla vita e ora mi viene chiesto di più. Mi è chiesto di dare la vita, la stessa vita che ho ricevuto. Di donarla attraverso il mio corpo e attraverso il corpo di mia moglie in modo che, da un momento all’altro, questo nuovo miracolo sia sostenuto nell’esistenza da noi. Se, anzitutto, siamo sostenuti da Dio, si potrebbe dire che la fonte più grande di sostentamento, dopo di Lui, nella mia esistenza è (o dovrebbe essere) quello della mia famiglia, dei miei genitori.

10. è possibile dire NO alla paternità… NO alla maternità?

Sì, è possibile, perché la persona umana si trova libera davanti alla possibilità di fare il bene, davanti alla possibilità di amare senza “riserve”. In tal caso, la paternità e la maternità sono realtà estremamente significative nella vita dell’essere umano, ma soggette a possibili errori che pesano molto. Come recita quel detto latino: corruptio optimi pessima. L’immagine paterna e materna si stanno abbandonando sempre di più nella cultura occidentale e, in modo progressivo e sottile (ideologico), alla fine questo è diventato “il grande problema” dei nostri giorni, dal momento che l’Occidente ha già smesso di avere figli. Allo stesso tempo, la famiglia, il matrimonio e la vita domestica sono stati banalizzati. Oggi in molti pensano che ci si possa realizzare come persona senza aprirsi alla maternità/paternità, vale a dire negando questa possibilità come se tale scelta fosse priva di significato per l’identità della persona. Allo stesso modo posso promettere amore eterno a mia moglie, ma a un certo punto revocare la mia promessa e andare libero sulla strada di una nuova avventura. Questo è stato il grande dubbio sorto negli anni ’60-’70, finito poi per cristallizzarsi negli anni ’90. Nel secolo in cui ci troviamo è diventato lo stile di vita dei più giovani. Ci sentiamo, direbbe Wojtyla, degli individui soggetti a diritti e libertà, non accompagnati, però, da responsabilità.

11. Si può dire che la paternità e la maternità sono un dono?

Per Wojtyla, la nascita dei figli è il dono più grande che i genitori possano mai ricevere nella loro vita. Ecco perché, penso, non c’è cosa più importante da dire a un figlio di questa: tu sei mio figlio, è bene che tu esista, che tu viva con me . Vale a dire, che meraviglia che sei, e che bello averti donato la vita.

12. Quale potrebbe essere un’ultima raccomandazione ai giovani che aspirano a sposarsi e a mettere su famiglia?

Ai giovani che desiderano sposarsi e che hanno ancora il proposito o la speranza di costruire una famiglia direi questo: dovete prepararvi ai problemi che vi attengono, leggere o anticipare gli specialisti. A seconda del paese in cui vi trovate, dovreste partecipare a degli incontri utili alla vostra crescita, andare ovunque si parli seriamente del matrimonio e della famiglia. Tuttavia, non si può fare tutto questo se non si mette al centro dello spirito formativo il dialogo tra il futuro marito e la futura moglie. È bene ricordare che Gesù Cristo ci ha insegnato a dialogare con Dio. Abbiamo il privilegio, nella nostra cultura, di riferirci a Dio come a un Padre. Ma ricordiamoci che quando ci si sposa il dialogo con la moglie e con i figli diventa un canale di dialogo con Dio. Agli sposi Dio chiede di seguirlo nel matrimonio. E cosa significa? Che il mio rapporto con Dio passa anche attraverso mia moglie e i miei figli e non posso avere un rapporto “indipendente” con Dio: esso deve essere accompagnato dal dialogo con la mia famiglia. Quindi, il mio suggerimento è: dialogare molto come sposi e in famiglia. Imparate a sviluppare quella grande virtù che non è automatica, che non parte necessariamente da interessi comuni, ma che nasce dal cercare di capire chi è la persona che mi sta di fronte. Chi è mia moglie o mio marito, chi sono i miei figli. Come genitori, dobbiamo sapere in che modo rispondere alle necessità di coloro che sono i membri della nostra famiglia.

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